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Racconti

Sapore Antico


venerdì 20 dicembre 2019
    

Le luci dell’abete, decorato di mille colori, che, nelle notti di Dicembre, avevano rischiarato il buio corridoio che congiungeva la mia camera a quella del nonno, erano spente ormai da giorni.


Anche dei panettoni, del torrone, delle caramelle e della frutta secca che ne adornavano la base, non vi era più traccia da tempo.


Ero un ragazzo e, da quasi due mesi, ormai, mi recavo, ogni martedì e giovedì, nel tardo pomeriggio, alla sezione cacciatori del paese, per avere notizie di quel benedetto porto d’armi che non ne voleva proprio sapere di arrivare!


La mia pazienza era allo stremo, nonostante venissi rassicurato sul fatto che lo avrei avuto presto, molto prima della chiusura stagionale della caccia, da un esaminatore, amico di mio zio Dario.


Già, mio zio Dario ….


Era per me molto più di uno zio. Era lo zio cacciatore, ma ancora di più …


Era il capocaccia della grande riserva, che comprendeva quasi tutto il padule: la massima autorità per me, almeno all’epoca!


Aveva un bel ripetermi lui, con quella sua vocetta metallica, di non essere troppo impaziente, di non crucciarmi per il porto d’armi, che tanto, presto, quell’infatuazione per la caccia sarebbe svanita.


Infatuazione? Eh, no, caro zio Dario! Non era solo infatuazione la mia, e te ne saresti presto reso conto!


Nel frattempo, ogni domenica mattina, mi recavo al “casone di caccia” nella riserva, per assistere al rientro, dei cosiddetti “invitati”, dalla battuta di caccia agli acquatici.


Nell’attesa, che spesso durava alcune ore, mi dilungavo in passeggiate tra lunghe file di pioppi sugli argini dei fossi che scorrevano all’interno dell’azienda. La zona era un vero paradiso …


Tutta un profumo, un sussulto, un verso d’uccello, un salto di pesce nell’acqua chiara, un volo di insetto …


I miei occhi impazzivano, presi dall’inseguire ogni forma di vita e si dipingevano di mille colori!


Le gambe mi dolevano dal gran correre, le mani si segnavano dal tanto scavare dentro tane piccole e grandi, alla ricerca di segreti che tali sarebbero rimasti. Ma era soprattutto il mio spirito a rinvigorirsi, a forgiarsi nel rispetto e nell’ammirazione di quella natura meravigliosa che mi si presentava davanti! Ero così giovane d’altronde…


Anche Dario, lo zio Dario, aspettava il rientro dei cacciatori. A lui toccava di ritirare le anitre da richiamo, per liberarle, poi, nella grande voliera dove avrebbero trovato il becchime che mancava loro dal giorno precedente.


Il suo lavoro, durante la stagione venatoria, si riduceva praticamente a questo.
Io correvo su e giù per aiutarlo, non che servisse a molto, in verità, ma, così facendo, giustificavo la mia presenza in quei luoghi.


Lui era un dipendente dell’ azienda, un operaio. Ma, per niente al mondo, diceva, si sarebbe “rinchiuso” in una fabbrica.


Io lo capivo, al contrario del nonno, che avrebbe voluto invece vederlo occupato nella piccola fabbrica di cartone: “Quello sì che è un lavoro sicuro”- diceva sempre - “Un lavoro che ha un futuro, altro che la caccia!”.


Comunque, a quel tempo, c’era solo una persona alla quale osavo avvicinarmi fra gli “invitati”.


A Gino, un uomo forte e vigoroso, sebbene diversi fili bianchi cominciassero, prepotenti, a comparire tra i suoi capelli folti e ricci. Mi aveva sempre impressionato la sua voce, forte ma, allo stesso tempo, armoniosa. Una voce, diceva lo zio Dario, che sembrava nata per imitare il verso delle femmine di germano.


Lo avvicinavo senza quel timore reverenziale che invece provavo per gli altri, quasi tutti dottori, avvocati od onorevoli. Forse perché Gino era del mio stesso paese, era un operaio, o forse perché, più probabilmente, la sua partecipazione alle battute di caccia in riserva dipendevano molto dallo zio. Sentivo di potermici rapportare quasi come fossimo alla pari, insomma.


E così lo avvicinai anche quella domenica mattina. Aveva un’andatura particolare quando camminava e, per la prima volta, mi soffermai più sulla sua “persona”. Notai dapprima il suo volto, bruciato dal freddo e dal vento. Un volto da uomo vecchio, ma senza una ruga! E le sue mani? Cosa dire di quelle mani così grandi e forti? Facevano un’impressione …


Non riuscivo proprio a capire come da quelle mani così grandi potesse uscire quella “gentilezza” e delicatezza, indispensabili per piegare i giunchi con i quali, sovente, confezionava le “ceste” e i corbelli per l’uva.


Era un bell’uomo, Gino, un uomo dal “sapore antico”!


Ero sicuro! Volevo diventare come lui!


Tutti i cacciatori della zona, quelli che cacciavano nella parte non riservata, mal tolleravano quei signori “privilegiati” che, ogni volta, rimediavano carnieri molto più interessanti dei loro e un pochino odiavano anche lo zio Dario e lo stesso Gino, ma loro, più di tanto, non ci badavano.


“Buongiorno Gino!” -dissi- “come è andata stamani?”.

E rispose così: infilata una mano nella carniera, ne estrasse una folaga. Era un esemplare molto bello, non feci in tempo ad aprire la bocca per dirglielo che lui, dopo averla fatta roteare due volte sulla zampa per la quale la teneva, con aria sprezzante, la lanciò nel folto di un canneto. “Bestiaccia!” – esclamò – e giù un “moccolo”! Io rimasi spiazzato da quella sua reazione, in verità.


Gli invitati se ne andarono con lo zio e anche Gino si unì a loro.


Quella mattina faceva freddo, porca miseria se faceva freddo, ed ero rimasto solo, ma ero determinato a tutti i costi a recuperarla quella folaga!


Ero bravo, nonostante la giovane età, a portare il “barchino”. C’ero nato, si può dire.


Mentre, accucciato nella “culatta”, mi tiravo nel folto, pensavo che Gino, quella mattina, era stato un po’ cattivo con me! Di sicuro quella folaga doveva essergli sembrata ben poca cosa in confronto ai carnieri degli altri. Avevo intravisto infatti, nei mazzi stesi sulla soglia del casone, molti petti bianchi! D’altra parte, a lui, era spesso destinata la “botticina di fondo” per cacciare, appostamento tanto speciale per la caccia agli acquatici in primavera, quanto problematico in pieno inverno! L’acqua troppo alta, infatti, non favoriva certo il tiro agli uccelli “bianchi”.
Tutti quei pensieri mi attraversavano la mente e un po’ mi aiutavano a mitigare il freddo che, piano piano, si stava impossessando delle mie mani.


Ad un certo punto,-“Eccola qua!” – esclamai trionfante! Alzai la folaga dall’acqua, perfettamente asciutta. “Bell’animale! – pensai – “dev’essere una vecchia femmina!” – mi convinsi …


Ma quanti anni sono passati da quei giorni? Non so dirlo con esattezza, forse preferisco non pensarci.


So però che tante, troppe cose, sono cambiate da allora nel nostro Padule.


Della zona riservata, dove cacciavano Gino e gli altri, non è rimasto niente!
Anche lo zio Dario ha dovuto arrendersi e cambiare mestiere.


Ora accatasta cartoni in una di quelle grandi fabbriche da cui ha sempre voluto stare lontano e ne ha molto sofferto.


Nei terreni adiacenti il padule, il mais, con la sua monotonia, ha soffocato tutto. I diserbanti hanno compiuto la loro missione di morte. Il “pesarone” e le altre erbe profumate sono solo un remoto ricordo.


E della cannella? Solo un ciuffo qua e là!


La zona centrale, la più bella e interessante dal punto di vista paesaggistico, è stata trasformata in Riserva Naturale. Già, Riserva Naturale, che magica parola … termine oggi di grande attualità, sulla bocca di tutti. Ma per creare una Riserva Naturale, non è sufficiente sottrarre terreno alla caccia. Bisogna sottrarlo anche alla grande viabilità, all’urbanizzazione selvaggia, allo scorrimento di canali inquinati e, quindi, inquinanti. Sottrarlo alla morsa delle erbe infestanti come la cannella, capace di soffocare ogni forma di vita in poche stagioni. Di esempi, certo, non ne mancano.


Quanti, tra i preposti alla conservazione di ambienti unici ed a rischio, sanno delle enormi difficoltà che il mantenimento di una Riserva Naturale, in zona valliva, comporta?


Pochi, temo … forse solo quelli che, in quei luoghi, hanno trascorso giorni e notti, per anni ed anni. Solo loro possono sapere che dal Padule si può avere solo dopo molto aver dato.


Loro sanno che l’ ambiente è difficile, quasi ostile. Un ambiente che, in ogni stagione, reclama “arrogante” la presenza dell’uomo e necessita della sua opera. Opera che, in stagioni dell’anno più difficili, non è nemmeno realizzabile con mezzi meccanici, ma necessita di lavoro manuale, quello duro, quello che i braccianti di un tempo definivano “l’ultimo pane”. Quelli come Gino, ad esempio.
I fossi invece sì, quelli ci sono ancora tutti e forse anche di più. La loro presenza indica che la bonifica è compiuta! I loro argini, spogli e privi di ogni forma di vita, rendono il paesaggio quasi lunare. All’interno di questo vero e proprio cratere palustre, la zona non riservata è stata frazionata in una miriade di piccoli appezzamenti, su ognuno dei quali insistono uno o più appostamenti. Ogni cacciatore ha avuto la possibilità di comprarne e sono davvero pochi quelli che non l’hanno fatto.


E da qualche anno, ormai, in uno di questi appezzamenti, caccio anche io, insieme ad alcuni amici. In un chiaro artificiale di quattro ettari, ai margini del Padule. Un bel posto davvero …


Con pazienza infinita abbiamo ricreato in questo luogo un ambiente dal sapore antico. Non un museo, ma un luogo ben vivo, un luogo tutto da vivere …


La presenza dell’acqua è quella giusta, mai troppa, mai troppo poca. Le erbe sono quasi tutte presenti: la cannella, il “pesarone”, i giunchi e perfino qualche ciuffo di “sarello”. E non mancano i cosiddetti “gerbi”, oramai altrove introvabili.
I carnieri invece no, quelli non hanno alcun sapore antico, ma a noi non importa poi molto.


Dove abbiamo posto la botte, un tempo correva la lunga fila di “paline” della zona riservata. Trecento metri più in là, verso la Statale, c’ è ancora, interrata nell’argine, la “botticina di fondo” di Gino, ormai inutilizzata ed inutilizzabile, circondata da alberi vecchi di sei-sette anni.


A proposito di Gino…


Ogni tanto mi capita di intravedere, all’albeggiare, al rientro dall’appostamento di caccia, una figura di uomo a me assai cara, con un’andatura un po’ particolare. Da lontano non riesco a distinguere facilmente i particolari del volto.
Che sia Gino? Che sia davvero lui?


Quasi tutte le mattine arriva con grande discrezione, spegne la macchina lontano, i fari ancora prima. Mai odi la sua voce, mai un solo colpo di tosse. Prima del nostro ritorno, se ne va silenzioso.


Possibile che sia Gino? Quell’uomo energico, forte, sprezzante come ho conosciuto quando ero giovane e al quale volevo tanto assomigliare? Forse non caccia più, magari non si è adattato ad altre cacce, ad altri luoghi. Forse il Padule gli ha davvero “annaffiato il sangue”, come soleva spesso dirgli lo zio Dario, deridendolo.


Ma una mattina di gennaio, una di quelle mattine che solo qualche vero inverno sa confezionare così, lo trovo al nostro ritorno, che passeggia vicino alla macchina.


Lo riconosco finalmente, e lo rivedo, dopo tanto tempo, da vicino!


Mi soffermo di nuovo, come una volta, sul suo volto. È ancora un bell’ uomo, ma quelle rughe così profonde e quelle mani così scarne, no, quelle non le riconosco proprio. E invece è proprio lui, Gino!


“-Buongiorno Gino!-”gli dico


“-Buongiorno ragazzi, come è andata stamani?”-


E rispondo così: infilata la mano nella carniera, tiro fuori un bel malloppo di penne nere che lancio sul cofano della macchina.


-“L’ha fermata “Bistino” con un tiro dei suoi, mentre, ritta sul ghiaccio, zampognava tra gli stampi degli uccelli di tuffo!”- preciso.


Gino guarda la folaga, fa per andarsene ma poi, invece, torna sui suoi passi, la prende in mano, la accarezza ed esclama:-“Bell’ animale, è una vecchia femmina!”.


Se ne va via, piano piano, con passo insicuro sul fango malfermo. Sale in macchina, mette in moto e parte.


Io continuo a guardarlo finché non sparisce dietro la curva alla punta dell’albereta.


-“Ciao Gino”-penso-“Ma sei veramente te? Eppure solo poco tempo fa volevo diventare come te!”.


Per anni mi era sembrato di conoscere quell’uomo, di avere capito tutto di lui e di quello che sarei voluto diventare.


Mi rendo conto che mi ero crogiolato invece in quella che era l’idea che mi ero fatta di lui


Sulle sponde di questo nostro Padule, come avviene poi nella vita di tutti i giorni, il tempo, nella sua corsa sfrenata, impedisce agli uomini di conoscersi profondamente, lasciando loro solo la possibilità di incontrarsi.


E io, Gino, quell’ uomo dal sapore antico, quasi venti anni fa, lo avevo solo incontrato!


Paolo Bechini

 

Tratto da RACCONTI DI CACCIA, PASSIONE E RICORDI Raccolta di racconti in ordine di iscrizione al 3° concorso letterario “Caccia, Passione e Ricordi” A cura di: Federcaccia Toscana – Sezione Provinciale di Firenze [email protected] www.federcacciatoscana.it

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