(Nella foto, gentilmente concessa dal sito www.epagneulbretonsardegna.com, l'epagneul breton Solo Du Clos D'Arthèmone, campione del mondo classe lavoro - Croazia 2008 - in un'azione di riporto dall'acqua)
Contrariamente a quanto avviene in cinofilia, il riporto dall’acqua non si conclude con l’uscita del cane dall’elemento liquido con il selvatico in bocca: vediamo perché
Abbiamo affrontato in precedenza le caratteristiche peculiari per il riporto e l’addestramento progressivo che conduce alla sua corretta esecuzione. Questa fase, conclusiva della singola azione di caccia, deve essere necessariamente preceduta dal recupero del selvatico abbattuto, specialmente nei casi in cui esso va a cadere, peggio se ancora vivo, in punti scomodi quali dirupi, siepi, anfratti rocciosi ed altre asperità. Anche nel caso del recupero, sarà l’istinto – adeguatamente stimolato dall’addestramento – ad istruire propriamente il nostro cane, che affronterà l’operazione di recupero come propedeutica al coronamento del successo, con l’abbocco del selvatico ed il successivo riporto in mano al cacciatore-conduttore.
Il discorso non è dissimile per quanto concerne il riporto dall’acqua, dove per acqua si intende l’acqua alta, vale a dire un invaso o fiume che obbliga il cane a nuotare per affrontarlo nello svolgimento dell’azione. In questo caso, si può tranquillamente affermare che l’acqua esalta le doti dei recuperatori, anche nel caso dei cani più scorretti.
Un esempio? Si pensi ad un cane che non riporta affatto ma che, al contempo, è dotato di forte istinto predatorio: non esiterà a lanciarsi in acqua per recuperare il selvatico abbattuto. Ovviamente, una volta raggiunto e abboccato l’oggetto dei suoi desideri, l’acqua alta non consentirà all’ausiliare di fermarsi sul posto e procedere alle scorrettezze del caso, come ad esempio ingoiare la preda o sciuparla. Sarà pertanto costretto a nuotare a riva, dove lo attenderà il conduttore per togliergli di bocca il capo abbattuto.
Spesso si assiste a prove di riporto dall’acqua che si svolgono proprio nel modo appena descritto, senza cioè che avvenga il vero e proprio riporto da parte dell’ausiliare, vale a dire il raggiungere a piedi il proprio conduttore e porgergli docilmente il selvatico affinché lo incarnieri. Esistono schiere di cani dotati di brevetto di riporto dall’acqua che in realtà non ne vogliono sapere di riportare, ma hanno ottenuto il cartellino grazie alla presenza a riva del loro conduttore.
Ma il riporto dall’acqua è un’altra cosa. Una volta abboccato il selvatico nello specchio d’acqua, infatti, il cane deve nuotare fino a riva, salire sulla terraferma e poi muoversi sollecito verso il suo conduttore, che lo aspetterà a non meno di 15-20 metri di distanza, meglio se 50 o anche più. Perché si richiede tutto ciò? Tanto per cominciare, perché un cane in grado di eseguire tutte queste operazioni in addestramento, sarà un recuperatore e riportatore impeccabile pressoché in ogni situazione che si potrà verificare a caccia; in secondo luogo, non meno importante del primo, perché l’ausiliare capace di tuffarsi, nuotare, abboccare il selvatico, nuotare fino a riva, uscire dall’acqua e percorrere alcune decine di metri per portarlo, trionfante, al suo conduttore, è un animale che ha sviluppato un legame molto più che saldo con il proprio padrone, caratteristica – questa – che tornerà utile in qualsiasi altro momento della sua esistenza, a caccia come a casa, a spasso in città o in altre mille situazioni.
Come si raggiunge, tecnicamente parlando, un buon riporto dall’acqua? Per prima cosa si scelga uno specchio d’acqua non troppo complicato: siamo ancora gli inizi, dunque è bene aiutare il nostro amico a quattro zampe scegliendo invasi quasi del tutto privi di vegetazione subacquea e che non presentino rive troppo scoscese. Alcuni cani gradiscono la presenza dell’acqua; di sicuro durante l’estate, ma è possibile che ciò si verifichi anche in inverno. Questi soggetti sono molto più predisposti degli altri, e nel giro di poche sessioni di addestramento diverranno recuperatori e riportatori provetti anche dall’ambiente liquido. Altri cani, dotati di minore intraprendenza e acquaticità, avranno bisogno di maggiore pazienza da parte dell’addestratore, ma con un po’ di costanza tutti gli ausiliari prenderanno confidenza con l’acqua, scoprendo il piacere del nuoto.
Una volta verificata la disponibilità, da parte dell’allievo, ad entrare in acqua, si proceda con dei semplici esercizi, in tutto simili a quelli eseguiti per addestrare il cane al riporto sulla terraferma. Fagotti di varie dimensioni, palline, ossi di gomma galleggianti, ciuffi di piume legati insieme, corde; sono tutti oggetti utili allo scopo. Importante sarà sempre il modello premiante basato sul concetto di azione-reazione: complimentarsi con l’allievo all’esecuzione per lo meno quasi perfetta dell’esercizio è di fondamentale importanza, meglio ancora se si accompagna la voce morbida e le coccole con qualche piccola leccornia. Ma si ricordi: condizione imprescindibile per la riuscita dell’esercizio è il non lasciare cadere a terra l’oggetto una volta raggiunta la terraferma. Il cane, giova ripeterlo, non deve trovare il conduttore sulla riva ad aspettarlo, ma dovrà anzi percorrere alcuni metri prima di raggiungerlo e consegnargli il “pacchetto” prima di poter considerare conclusa la prestazione.
Conclusi questi esercizi fondamentali, saremo pronti a far trovare al nostro allievo un surrogato di selvatico, ad esempio un’anatra disalata. In questo modo il cane avrà il suo bel da fare prima di poter abboccare il volatile. Questa situazione, del tutto nuova per il giovane ausiliare, dovrebbe esaltarne l’istinto per la predazione e stimolarne l’impegno al recupero. Non appena abboccata l’anatra, il cane dovrà riportarla sollecitamente a riva e consegnarla al suo conduttore. Ed ecco, infine, spiegato il motivo per il quale il riporto dall’acqua non si può considerare concluso al raggiungimento della riva da parte dell’allievo. A caccia, in molti casi, il conduttore non sarà in grado di raggiungere la riva del fiume o del lago, ad esempio perché troppo ripida o perché completamente avvolta dai rovi. Si immagini un cane da caccia che si tuffa in acqua, agguanta il selvatico ferito, lo porta a riva e poi lo lascia lì dov’è: non credo ci sia bisogno di aggiungere altro.
Un soggetto di media intelligenza, portati a termine con successo i primi esercizi in acqua e vissute le prime esperienze con anatre disalate, sarà felice di avvicinarsi all’elemento liquido ogni qual volta se ne presenterà l’occasione. Sarà allora possibile insegnargli anche l’ultimo degli esercizi funzionali alla caccia nelle zone umide: la cerca meticolosa lungo le rive. Si tratta di un esercizio nel quale i tedeschi sono maestri, come del resto lo sono per molte altre attività cinofile. Il cane, in sostanza, dovrà battere minuziosamente la vegetazione palustre che costeggia il torrente o il corso d’acqua, senza inutili e frettolose fughe in avanti, ma a contatto stretto con il suo conduttore. Molti selvatici frequentatori delle zone umide, ad esempio i rallidi, vengono spesso saltati dagli ausiliari per eccessiva foga nel battere il terreno. Altri, vale a dire i palmipedi, reggono la ferma per brevissimo tempo, il che ne rende impossibile l’abbattimento in presenza di un cane che allunga in palude.
L’esercizio della cerca nella vegetazione lacustre rappresenta forse l’apice del collegamento tra cacciatore e cane, specialmente se si tratta di un soggetto di razza inglese, abituato generalmente ai grandi spazi e alle immense aperture di lacet. Osservare cani da ferma, instancabili galoppatori a starne come a beccaccini, rallentare di ritmo e farsi guardinghi in presenza di rii e laghetti, è uno spettacolo di rara emozione cinofila. L’andatura si fa quasi di sospetto, al galoppo impetuoso si sostituisce il trotto o addirittura la filata attenta: il nostro Ribot caccia anche con il cervello. Ed è proprio questo, unitamente all’imprescindibile fattore “C”, che alla fine della giornata potrà fare la differenza. Ma sia a tutti ben chiaro: per raggiungere un risultato ottimale in quest’ultima prova occorre, oltre alla sensibilità dell’addestratore, anche un importante livello di intelligenza del nostro cane. E quella, di certo, non possiamo insegnargliela noi.
Daniele Ubaldi