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Racconti

Maremma


lunedì 1 ottobre 2018
    

Nel medesimo istante in cui Giuditta e Mariolina presentavano i biglietti alla Maschera per entrare nella sala del cinema Odeon a Firenze, Mazzino allungava la mano per prendere il tagliando al casello autostradale di Pistoia. Era alla guida dello storico Ford Transit: Ugo, Mario e Cesare, s'erano stravaccati nelle poltroncine. Il motore diesel ronfava sui 100 all’ora, tranquillo, sospirando un visibile fumaccio nero dallo scarico.


“Se ci ferma la Polizia, invece di fare il verbale ci arrestano.” Disse Mario.


“Per cosa?” Si arrabbiò Mazzino.


“Per quella robaccia nera allo scarico.” Replicò l’amico.


“Perché… te credi di farla bianca quando tu scarichi nel water?”


“Dai, tira via, quant’è che si dice di rifare gli iniettori… quant’anni saranno che s’adopera questo coso per andare in Maremma, quattro… cinque…?”


Il Transit era di proprietà di Mazzino e lui l’aveva messo a disposizione della Squadra. L’adoperava tutte la mattine, pienandolo di verdure per il mercato generale: un totale di mille metri giornalieri, ma la Squadra, tra il sabato e la domenica, macinava tra i seicento e gli ottocento chilometri.


Fu così che il motore, quando n’ebbe bisogno, fu rimesso a nuovo con i soldi sociali della Squadra, com’era giusto. E ora toccava agli iniettori.


Cesare si asteneva da quel dialogo, ripensando a quando partiva per la caccia con altri e quanto fosse diverso con questi. La Squadra attuale era un embrione di democrazia vera: era prevista l’esatta divisione delle spese e degli uccelli cacciati, quanti uno ne avesse abbattuti passava in secondo ordine. A tutti può capitare una giornata storta dall’occhio torbo, ed era giusto che ognuno avesse la sua parte, sempre e comunque. Cesare era il ragioniere dell’accolita e nel suo blocchetto confluivano tutte le spese. Alle cibarie pensava il macellaio, insaccati e formaggi di gran qualità a prezzi da sballo. Frutta e verdura erano gli articoli di Mazzino, mentre Mario e Cesare pensavano alle cartucce e al resto, comprese civetta e lodole da ingabbiare.


Tutto veniva annotato.


All’inizio, ognuno dei quattro amici, gente che sparava piuttosto bene, adoprava diversi tipi di cartucce. Ugo era innamorato delle Ranger della Winchester, Mazzino delle Fiocchi, Mario delle SMI e Cesare non sparava se non Maionchi, in particolare Velox e Speed arancioni. I fornitori erano l’armeria Lotti, Silvano Giovanetti del Bottegone, Gigi del Mulo, il Conti di Porta al Borgo, Marcello Susini di Porta S.Marco, il Biffoli di Firenze.


Mario e Cesare stravedevano per la velocità delle Maionchi AZ 20 da piattello con 32 grammi di piombo e avevano bussato alla porta di Paolo Biffoli, grande armaiolo di Firenze, per cercare una cartuccia veloce col piombo del 10 per lodole e tordi. Le prime prove alla placca furono effettuate con delle AZ 20 modificate da piattello. Venne forzata la chiusura stellare, tolto il 7 ½, inserito piombo Montevecchio n°10 e operata una chiusura molto stretta. Erano velocissime, ma al Biffoli la rosa sembrò un po’ sguarnita, così continuò le prove per conto suo finchè non raggiunse ottima velocità,  e pressione contenuta, con piombo dell’11 nichelato. Le fece caricare a Dionisi: polvere monobasica A1 francese, contenitore Gualandi e piombo nichelato, che mantenendo la sfericità meglio di quello comune, teneva la rosata stretta e più guarnita per il maggior numero di piombi.


A caccia le padelle arrivano quasi sempre per mancanza di anticipo, ma con quella velocità erano più rare. Nel tirare agli uccelli entro i trentacinque, quaranta metri, non fu mai sentita la perdita di micidialità che si sarebbe dovuta avere nel passare dal piombo del dieci all’undici.


Cartucce che ‘lavoravano’ sempre, adoperate assieme alle Velox, un classico che in Maremma non aveva mai tradito.


Mentre osservava dall’autostrada le moderne ville smerlate, repliche delle antiche cioè, nei dintorni della Certosa, Cesare operò un breve riepilogo tirando fuori il blocchetto per prendere nota.


“Ugo, quanto hai speso?”


“Cosa vuoi che abbia speso…”


“Forza, dai, non rompete i coglioni, devo aggiornare i conti.”


“Ventimila lire tra pane, salsicce e affettati. Diecimila il pecorino.”


“E te, Mazzino?”


“Ma cosa gli vuoi dare…” s’inserì Mario, schernendo, “ la roba che ci dà è tutta frutta che al mercato buttavano via…”


“Mi piacerebbe vedere chi te la regala la roba… a te, comunque, le pere e le mele l’ho barattate con l’insalata. Non voglio nulla.”


Tutti avevano in mente la spianata dell’Alberese, le dolci propaggini erbose, larghe e lunghe, estese per chilometri, le bianche vacche, le greggi di pecore senza pastore, ma col bianco cane maremmano al loro interno a far la guardia.
“Mazzino, stai attento, vai piano, mi pare che ci sia dell’umido sull’asfalto.”


Erano arrivati a Monteriggioni, forse il punto più pericoloso della superstrada che porta a Siena. Cesare provava piacere nel toccare il morbido pilòr della giacca da caccia comprata da Paolo Biffoli: super rifinita, un po’ dandy, verde oliva, con un gran bavero in lana, morbido come lo stracchino. La indossava per andare al bar o per occasioni sportive, ma non per cacciare, non sopportando niente sopra il gilè.


Solo tre, quattro anni prima non provava i capi di abbigliamento, ora era leggermente ingrassato. Sua moglie era solita acquistare per lui la taglia 50, per pantaloni e giacche, che indossava senza alcun rimaneggiamento. Era di altezza normale e forte di busto; una leggera pancetta da quarantenne lo costringeva a saltuarie diete mai seriamente onorate.


La carnagione olivastra, i capelli e gli occhi neri, il naso leggermente adunco, avrebbero denunciato origine araba, ma la sua Gente, i Neri, aveva origini pistoiesi da secoli e lui era nato, unico figlio, in via Carratica. Andava col pensiero a Paolo Biffoli, cui riconosceva competenza balistica e armiera e a suo figlio, Marco, giovanissimo, ottimo tiratore di trap, già dotato di brillante intelligenza commerciale. Dai Biffoli aveva comprato, per il suo Beretta A 300 calibro 12, una canna di 67, due stelle: un fenomeno. Era raro trovare in un’armeria capi di abbigliamento prestigiosi, e piuttosto normale, invece, mercanzia da mercato, di bassa qualità. Lì, a Firenze, dai suoi armaioli, si trovava bene.


“Quando tu vedi un bar, fermati, che ho bisogno di pisciare!” Disse Ugo.


“Senti questa, da quando in qua c’è bisogno di un bar, non ti basta una siepe o un albero?” Domandò sarcastico Mario.


“Chetati, non sono una carogna come te. A metà strada ci siamo sempre fermati, che pensi solo per te? C’è chi ha bisogno di bere, chi di pisciare, chi di sgranchirsi un po’ e chi di andare affanculo come te. O se avessi voglia di mandare una cartolina a casa?”


Anche se certe frasi sarebbero potute apparire come offese, all’interno della Squadra diventavano motteggi bonari; c’era un’armonia che stemperava sempre per il meglio il linguaggio un po’ rude degli uomini.


Il tic-tac della freccia anticipò l’entrata in una stazione di servizio prima di Grosseto. Scesero, alzando gli occhi al cielo… nessuna  traccia di Tramontano. Un quarto d’ora e ripartirono, senza l’entusiasmo che avrebbe fornito una bella passata di vento dal nord: in Maremma solo con questo vento c’è abbondanza di uccelli di passo, perché risalgono dal mare verso l’interno.


Quando scorsero la polvere alzata dal vecchio Ford, sulla lunga strada sterrata che portava alla loro casa, Emma e Adorno uscirono sull’aia. Una casa colonica fatta in epoca fascista dall’Ente Maremma, con la caratteristica scala esterna tinta dal verde rame, perché ombreggiata da una vite salamanna.


I tre figli muratori erano emigrati a Roma e gli anziani coloni vivevano con serenità la loro condizione di privilegiati proprietari di casa con podere, allevando qualche animale e coltivando quel che potevano, senza dannarsi, i momenti difficili erano passati.


Il podere n°11 della Vaccamorta era diventato albergo e trattoria della Squadra dell’Arca, vi facevano riferimento anche quando non c’erano più lodole e cacciavano tordi a Batignano e Scansano. L’Emma in cucina era una cuoca da favola: roba semplice, ma da campionato del mondo dei ghiotti. Il vino di Adorno, né bianco né rosso, d’un colore biondo scuro, ronzava sui 14 gradi e colpiva alle gambe con la disinvoltura di un traditore nato.


“Adorno, che s’è alzato in questi giorni il Tramontano?” Chiese Mario scendendo per primo dal furgone.


“Vento non ce n’è stato, né di sopra né di sotto.” Rispose l’uomo.
“Lodole n’hanno viste?”


“Qualcosa, qualche Cappellaccia, ma branchi di passo… nulla; s’è visto dei fringuelli, calenzoli, ma senza la furia del passo, è caldo, sembra estate.”
“Tordi n’hanno presi ?”


“Qualcuno al boscone del Tirinnanzi, ma poca roba.”


Adorno l’aveva un po’ avviliti, ma tant’è, se la situazione era quella, c’era poco da fare. Dopo cena un po’ di televisione in bianco e nero, con Lauretta Masiero e Aroldo Tieri impegnati in un noioso 'scemeggiato', quindi a letto.


Emma li svegliò ch’era buio fondo, dalla pentola aleggiava un dimenticato profumo di orzo bollente, dal cielo aria rinfrescata dalla notte, stellata meravigliosamente.


Niente vento dal nord.


Lasciarono le gabbie delle lodole nella stalla, presero solo la Luigina, una piolatrice eccezionale che da sola sarebbe stata sufficiente a tirare giù dal tetto del cielo un’incredula lodola rifrullona accamparecciata. Aspettarono giorno tra gli olivi senza sentire uno zirlo, poi si recarono al lungo campo in leggera ascesa dell’Aquilaia, teatro delle loro eccezionali cacciate alle lodole.


Una giornata bellissima, da mettersi il costume e piazzarsi al mare, sulla spiaggia, ma uccelli a tiro… niente.Verso le otto e mezzo s’impadronirono del cielo altissimi branchi di colombacci, uno dietro l’altro, fringuelli e altri uccelli minuti in gran quantità, direzione sud. E anche un triangolo di germani e poi un altro e un altro ancora: uno spettacolo!


Non si sentiva un colpo, neanche lontano, nemmeno nelle forre verso l’interno, dove qualcuno al capanno, per merli o tordi, ci sarà stato senz’altro. Alle dieci, mortificati, lasciarono il lungo campo, riportarono la Luigina nella stalla con le altre e si persero a giro, vaganti, con l’idea di rivedersi per il pranzo; solo per una passeggiata, perché d’insidiare uccelli in comune non c’era ragione.

 

Franco Antonelli

 

 

Tratto dal libro Caccia sul Monte Sacro

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