La vita andrebbe sempre vissuta due volte. La prima vita dovrebbe servire per fare esperienza, mentre la seconda per metterla in pratica. Anche se mi reputo un discreto cacciatore, quando sono andato in Spagna per cacciare la capra Hispanica bastava un niente per farmi agitare. Prima della partenza mi preoccupava il volo, lo sdoganamento delle armi, la conformazione del territorio e la competenza degli accompagnatori e m’impensieriva anche l’alimentazione e il clima che avrei trovato. Ma quando si è presentata l’occasione di ritornare sulla Sierra, l’avventura è stata, se così si può dire, tutta in discesa. Quando raccontai la mia precedente esperienza in Spagna ad alcuni amici veramente appassionati sapevo che stavo contagiandoli con un infido “virus venaticus”. Era matematicamente scontato che qualcuno di loro, tra i più intraprendenti, già meditava di ripetere, e al più presto, la mia esperienza. Così, ben presto, mi ritrovai al terminal B dell’aeroporto di Barcellona in compagnia di Paolo. Ritirare armi e bagagli, pagare le tasse aereoportuali e prendere la navetta giusta, non ci portò via neanche mezzora. Praticamente lo stesso tempo che impiegò Franco Lunardelli, l’allora titolare de Lachurra (l’agenzia di viaggi venatori che ci ha aperto le porte per cacciare in Spagna), per trovare un parcheggio per la macchina.
Ad aprile in Catalogna faceva ancora freddo, ma alla fine di maggio, quando giungemmo a Vinaros, il termometro sfiorava i trenta gradi. Pensai che forse il maglione che mi ero portato dietro avrei potuto tranquillamente lasciarlo a casa! Durante tutta la vita il mio incubo peggiore è sempre stato quello di trovarmi sul terreno di caccia ed accorgermi di aver dimenticato qualcosa. Così, alla vigilia di ogni battuta, la cura dei preparativi è sempre maniacale. Anche se Paolo era l’unico che aveva dietro un’arma, prima di coricarmi ricontrollai più volte le attrezzature di entrambi. Il mio zaino sembrava il marsupio di Eta Beta. Non credereste mai cosa riuscii a metterci dentro. Il mattino seguente partimmo per la Sierra Vallivana io, Paolo, Pedro (il socio spagnolo di Franco) e una guardia forestale, che neanche a farlo apposta si chiamava Pedro anche lui. Soltanto il Mithsubishy L 200 bianco e la strada sterrata che prendemmo erano gli stessi dell’altra volta. Con la scusa che soffrivo di mal d’auto, riuscii a sedermi davanti. Fu un modo egoistico per godermi meglio quello splendido paesaggio. Lungo il tragitto fummo fortunati perché avvistammo molte capre. Erano quasi tutte femmine con i piccoli, ma intravedemmo anche qualche giovane maschio, così ne approfittai per scattare alcune foto e per fare addirittura una piccola ripresa con la videocamera. Dallo specchietto retrovisore vedevo Paolo che era teso come una corda di un violino. Effetto capra? Credo che nessuno sia immune al brivido della caccia in montagna, neanche chi, come lui, che aveva già all’attivo cinque bufali ed un elefante.
Cacciare in quel periodo e con un simile caldo, oltre che essere poco piacevole, ci spronava anche a procedere veloci. Non ci fu bisogno che lo dicesse la nostra guida, che da lì ad un paio d’ore tutti gli abitanti della Sierra si sarebbero rintanati all’ombra, tra le fresche rocce, per proteggersi dal sole implacabile. Attraversammo la valletta dove una ventina di giorni prima avevo catturato la mia capra, aggirammo un piccolo monte e parcheggiammo il fuoristrada a ridosso di un vecchio pino solitario. Non ho molta simpatia per le “carovane”, tanto meno quando si è a caccia, così declinai l’offerta che mi fecero Paolo e Pablo il guardia caccia di seguirli, per andarmene, assieme all’altro Pablo, ad esplorare il versante verso mare. In quel modo, oltre a non disturbare la loro caccia, speravo di aiutare Paolo controllando un’altra zona. Ci saremmo tenuti in contatto con i telefoni cellulari.
Dopo esserci scambiati i classici “in bocca al lupo”, una coppia prese verso destra mentre io e Pablo, zaini in spalla, cominciammo a salire verso sinistra. Cosa avrei dato per poter avere sulle spalle una bella carabina, magari anche una replica in plastica! Invece dovetti accontentarmi d’impugnare soltanto il mio bel binocolo “classicissimo da montagna”, che era appena rientrato da una messa a punto in completa garanzia. Un po’ per deformazione professionale, un po’ per illudermi che a tutti gli effetti stavo cacciando anch’io, adottai la classica tecnica della caccia alla cerca: camminare poco e binocolare tanto, stando sempre attento alla direzione del vento e ai movimenti insoliti. Pablo mi seguiva con un ventesimo del mio entusiasmo. Per lui la Sierra era sinonimo soltanto di tordi e pernici e, al limite, di qualche sporadica beccaccia. Durante una breve sosta mi confidò addirittura che non aveva mai posseduto una carabina! Com’era possibile che un cacciatore appassionato come lui fosse immune alla “febbre” della caccia a palla?
Scattai qualche foto al panorama mozzafiato, decisi che valeva la pena fare anche una piccola ripresa e, come riposi l’attrezzatura cine–foto nello zaino ed impugnai di nuovo l' 8 x 30, nelle limpidissime lenti apparvero quattro splendidi maschi di capra Hispanica. Non era trascorsa neanche mezzora da quando c’eravamo messi in marcia che sul crinale opposto al nostro pascolavano beati quattro animali da trofeo. Io e Pablo ci sdraiammo fulminei tra i cespugli di timo, lavanda e rosmarino e prima ancora di valutare bene i selvatici, misurai la distanza. Il display del mio telemetro segnò 216 metri. Strano ma vero, quasi mi preoccupai di averli troppo vicini. Non avevo la minima idea di dove fossero e cosa stessero facendo Paolo e Pablo (1), ma decisi ugualmente di chiamarli. Paolo rispose al secondo squillo: “Novità?”, “Una e pure grossa. Ho quattro maschi a tiro e tutti portatori di buoni trofei”. “Beati voi. Noi ancora non abbiamo visto niente”. Mi fece passare Pablo (1) e dopo avergli spiegato dove si trovavano gli animali, in men che non si dica, decidemmo che forse potevano tentare di raggiungerci. Ipotizzammo che ci avrebbero messo una mezzora, quando invece ce la fecero in venticinque minuti.
Nel frattempo le quattro capre si erano addirittura avvicinate. Paolo era ben allenato, ma a sessant’anni camminare veloce su quelle pietraie e con quel caldo non era stato certo uno scherzo. Lo lasciammo a riprendere fiato, mentre io e Pablo (1), da buoni “professionisti”, iniziammo una seria valutazione dei maschi. Furono sufficienti pochi minuti per riconoscere il migliore come il primo sulla destra. Chiamai Paolo, gl’indicai il capo d’abbattere e gli comunicai la distanza: 155 metri esatti. Conoscendolo da trent’anni, sapevo che non c’era bisogno di dirgli altro. Lo vidi estendere al massimo il bipiede montato sulla sua Weatherby Vanguard calibro 270 Winchester, regolare a dodici gli ingrandimenti del variabile e con una calma innaturale mettersi in punteria. Quasi mi dimenticavo che avevo dietro la videocamera, così, velocissimo, la presi e mi preparai anch’io. Pochi secondi dopo, il silenzio ovattato che regnava nella Sierra venne infranto dal ruggito della 270, ed io, anche se sobbalzai, riuscii ugualmente a vedere e a riprendere il grande maschio che si abbatteva al suolo. L’urlo che ne seguì non fece onore alla nostra fama di esperti e vissuti cacciatori! Gli altri maschi fuggirono verso la cima scomparendo in pochi attimi, ma dalla nostra posizione anche quello colpito non riuscivamo più a vederlo.
Conscio sia dell’abilità di Paolo come tiratore sia della micidialità delle “mie” Nosler Partition da 130 grani, non mi aspettavo comunque brutte sorprese. Pablo (1), senza farsi incitare, scattò come un camoscio e lo vedemmo con pochi salti raggiungere agevolmente l’anshuss. A noi invece ci vollero dai quindici ai venti minuti!
Il “macho di cabra montès” era lì dove speravamo che fosse. Doveva essere passato dalla vita alla morte senza neanche accorgersene. Il nostro guardacaccia ci confidò che la settimana precedente un cacciatore francese per abbatterne uno aveva dovuto tirargli quattro colpi di 7 Remington Magnum. La nostra capra era bellissima. La stimammo sui dieci anni e abbondantemente “medaglia di bronzo”. Aveva un trofeo tipico, scuro e simmetrico, proprio come Paolo l’aveva sempre desiderato. Io per abbattere la mia capra avevo tribolato per un paio di giorni, mentre lui aveva concluso la caccia dopo poco più di un’ora di caccia. Che fosse dipeso dalla fortuna, dalle particolari condizioni meteorologiche o dalla perfetta sintonia dei quattro cacciatori poco importava. L’importante era, che avevamo fatto un abbattimento corretto e che io potevo mettermi tranquillamente all’opera con i miei “skinner” per recuperare il pregiatissimo trofeo.
E così il ritorno alla Sierra, oltre ad essere stato piacevolissimo, fu anche coronato dal successo. Il nostro morale era alle stelle e tutti già pregustavamo il lauto pranzo ed i festeggiamenti che ne sarebbero seguiti. Ancora una volta mi stupì quanto la caccia potesse accomunare le persone. Era bastato trascorrere pochissimo tempo con i nostri due nuovi amici, che già sapevo che, quando sarei rientrato in Italia, immancabilmente ne avrei sentito la mancanza.
Marco Benecchi