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IN ESCLUSIVA SU BIGHUNTER "MEMORIE DI UN PADULANO" DI GIOVANNI FRANCESCHI


giovedì 11 giugno 2009
    

Giovanni Franceschi

Suddivisa in tre puntate, vi proponiamo la prima parte di "Memorie di un padulano", la straordinaria testimonianza di una vita vissuta nei valori della caccia e della natura, sullo sfondo nostrano del Padule di Fucecchio. A raccontarcele è Giovanni Franceschi.

FUCECCHIO COM'ERA

Credo innanzi tutto sia doveroso presentarmi. Sono nato a Capannori circa settanta anni fa da padre lucchese e madre pontigiana, ma per cause belliche, mio padre morì ed io sono cresciuto a Ponte Buggianese in casa del nonno materno il quale, oltre che cacciatore era un appassionato allevatore di ogni specie di animali, dai cani agli uccelli esotici.

Quindi sono cresciuto in mezzo a gabbie e voliere assaporando ogni giorno le gioie e le delusioni che si alternano in questa passione. Contemporaneamente è maturata la passione per la caccia, prima al capanno poi in Padule; già a dodici anni qualche amico compiacente, la domenica, mi portava al cesto.
Di quelle giornate ricordo il grande freddo, stoicamente sopportato, ma anche tanta emozione per i voli, le luci, i suoni e le rare prede.

Da allora posso dire che il Padule mi è entrato nel sangue non solo dal punto di vista venatorio, ma anche per il suo valore ambientale e sociale nella storia della Valdinievole e dei suoi abitanti.
Per rimanere in qualche modo  nell’ambiente ho scelto l’Istituto Agrario di Pescia dove, grazie ad un grande Maestro, il professor Ennio Andreucci, ho approfondito in modo scientifico l’infarinatura, appresa sui libri del nonno, di zoologia e botanica.

Ho iniziato ad insegnare applicazioni  tecniche, con poco entusiasmo, ma avevo uno stipendio sicuro e tanto tempo libero per le mie passioni: caccia e pesca. Per pesca intendo quella fatta da secoli in Padule con nasse, bertibelli, retoni, gori, goretti e cerchi, oltre a quella con la bilancia e la mazzacchera.
Nelle notti di primavera spingevo il barchino mentre il compianto Cucchio, pescatore di professione, alla luce del frignolo, chiappava i ranocchi in frega con la facilità di chi coglie le ciliegie; se ne riportava venti o trenta chili per notte!

Appena diplomato mi iscrissi alla facoltà di Agraria, superai gli esami di zoologia e botanica a pieni voti poi, dopo una decina di esami, mi inceppai sulla chimica, iniziai ad insegnare e abbandonai.
Alcuni anni dopo il nonno al quale la mancata laurea era rimasta di traverso, mi fece vedere un ritaglio di giornale che comunicava l’apertura di un nuovo corso di laurea presso la facoltà di Veterinaria di Pisa: Scienze Della Produzione Animale.

La cosa mi interessò, andai a parlare con il preside di facoltà il quale, in cerca di iscritti, (erano anni nei quali veterinaria rischiava la chiusura) mi promise di riconoscere buona parte degli esami sostenuti ad agraria e iniziai di nuovo il mio iter da studente.
Naturalmente continuai ad insegnare, la mattina professore  poi un panino e, con la cinquecento, a Pisa alle lezioni.

Dei dieci iscritti molti eravamo studenti lavoratori quindi ottenemmo di avere le lezioni più importanti al pomeriggio. Già allora potevamo presentare un piano di studi ed io privilegiai alcune materie come idrobiologia, piscicoltura e avicoltura per approfondire le conoscenze relative alle mie passioni.

Molte nozioni le conoscevo già da bambino così mi laureai in quattro anni con una tesi sull’allevamento del colombo in onore del nonno che aveva acquistato la prima coppia di piccioni a dieci anni per due paoli.

Scusatemi se mi sono dilungato un pò troppo mentre avrei potuto semplicemente dire che tutto quello che ho fatto nella mia vita è sempre stato in funzione delle mie passioni evitando accuratamente di farne motivo di lucro.

Veniamo al mio Padule del quale oggi si parla tanto, quasi sempre a sproposito per ignoranza o per pura speculazione.
Ometto le notizie storiche che potrete trovare su alcune ricerche pubblicate in epoche successive dal Comune di Monsummano e reperibili in ogni biblioteca della Valdinievole.
L’ecosistema palustre è mutato moltissimo nel corso dei secoli trasformandosi da insenatura lagunare a lago dolce a palude alluvionale, ma possiamo dire che per due secoli fino agli anni sessanta è rimasto pressochè immutato.

Nel 1977 il Consorzio di Bonifica pubblicò un volume intitolato “Progetto pilota per la salvaguardia e la valorizzazione del Padule di Fucecchio”.
A pagina 20 a proposito di flora e vegetazione dice testualmente “per avere uno studio specifico dedicato alla flora ed alla vegetazione del comprensorio ci dobbiamo rifare ad un apposito lavoro del Nannizzi pubblicato nel 1938. Omissis…. “quelli citati da Nannizzi sono 224 mentre con la presente indagine ne sono stati rinvenuti 207”.

Si dice inoltre che sono aumentate le terofite (piante annuali che si propagano per seme), e le geofite(piante perenni con gemme sotterranee, bulbi o rizomi) mentrediminuiscono le idrofite (piante perenni acquatiche con gemme sommerse) e seppure lievemente delle fanerofite (piante legnose perenni con gemme a più di tre metri di altezza dal suolo).

Da tutto ciò si può concludere che la situazione floristica è pressochè stabile considerando i mutamenti che la società ha compiuto dal periodo pre a quello post bellico.
Per la fauna non si hanno dati certi di riferimento, tuttavia sia le specie ornitiche che le ittiche censite sono quelle della memoria storica e da me rilevate una per una.
Interessante la presenza talora molto abbondante di una ricca e variata microfauna di cui a pagina 27 ne viene dato un dettagliato resoconto.

Padule di Fucecchio

Dobbiamo rilevare che questa indagine fu fatta negli anni immediatamente precedenti il ’77 quando alcune situazioni ambientali erano già profondamente mutate.
Prima della guerra e per i primi anni del dopoguerra, il consumo di acqua delle famiglie era molto limitato, le case provviste di acqua in casa (di solito solo in cucina) si contavano sulle dita di una mano, le industrie, conce e cartiere, erano state decimate dalla guerra e gli unici detersivi, usati con molta parsimonia, erano sapone,lisciva e soda.

Inoltre quasi tutte le case erano dotate di pozzo nero ove si raccoglievano i liquami organici e non le acque chiare che avrebbero diminuito il valore del “bottino”.
Periodicamente,nottetempo, venivano gli ortolani della zona o della lucchesia (si diceva che prima di prelevarlo lo assaggiassero per valutarne la forza) e in cambio di un mazzo di asparagi,  svuotavano i pozzi neri travasandolo in botti di legno caricate su carri e li usavano per concimare gli ortaggi in barba ad ogni regola igienica.

Con tutto ciò non pensiate che, come qualcuno di memoria corta sostiene, le acque dei fiumi e in particolare della Pescia maggiore, fossero prive di inquinanti, anzi, basti pensare che conce, cartiere e fognature della città di Pescia, versano tutto nel fiume.

Per giunta la popolazione della Valdinievole lavava nei vari fiumi e torrenti i propri panni e per non scendere in particolari ricordo che non esistevano nè pannolini nè pannoloni usa e getta!
Poi il sabato, d’estate, si prendeva sapone e asciugamano e si andava a lavarsi nel Tonfo vicino casa (i tonfi erano tratti del fiume molto profondi creati dalla escavazione della rena).
Le acque non presentavano una trasparenza elevata a causa dell’alta carica microalgale, in cinquanta centimetri d’acqua non si vedeva il fondo.

I primi problemi  cominciarono a manifestarsi nei fiumi nei primi anni ’60 con colorazioni anomale delle acque,rosse,verdi celesti e conseguenti morie di pesci soprattutto nei regimi di magra.
La città di Montecatini convogliava i suoi rifiuti liquidi nel  fosso dei Massesi scavato prima della guerra che sfociava nella Borra circa un chilometro prima della sua immissione nel Canale del Terzo,ricordo che la mattina verso le nove,in piena stagione turistica, ,arrivava una vera e propria onda di m...a dei villeggianti, allora numerosi, che si erano svuotati.

Monsummano scaricava tutto nella Candalla che finiva anch’essa nel Canale del Terzo.
Intanto, anche nelle campagne tutti avevano l’acqua in casa, le prime lavatrici, i detersivi di nuova generazione, ma non ancora una fossa biologica funzionante.

Ognuno scaricava dove voleva, fossi, rii e torrenti furono invasi da scarichi fognanti.
Nel contempo i consumi idrici erano molto aumentati,si scavavano pozzi artesiani sempre più profondi e era evidente che le falde superficiali si stavano abbassando e la portata dei torrenti e dei fiumi,di conseguenza diminuiva.

Prima, in pieno agosto, i tagliatori di pattume in padule scavavano una buca di trenta o quaranta centimetri e, la sera, avevano l’acqua fresca per lavarsi, ora dovevi scavare un metro.
La portata dei fiumi calava di anno in anno, nella Pescia dal ponte del Marchi a quello de’Pallini cerano più di cinquanta pompe in azione che irrigavano orti e garofani, pertanto la quantità degli inquinanti aumentava percentualmente.

Le morie mi permisero di valutare l’enorme patrimonio ittico del Pescia, predominavano tinche, lucci e anguille ma erano presenti molte altre specie europee.
Il Padule risentiva di questi eventi negativi con maggior lentezza in quanto gli immissari allora, a differenza di oggi, confluivano in Padule formando un delta di rivoli e canaletti.
In tal modo le acque subivano un filtraggio ed una riossigenazione, quindi una parziale depurazione naturale, poi le grandi piene diluivano il tutto.

Comunque i pochi pescatori  rimasti denunciavano sempre minori catture pregiate ed un progressivo aumento dei pesci gatto in particolare le anguille erano sempre meno.
Logicamente l’ inquinamento dell’Arno procedeva di pari passo o anche peggio visto il peso antropico che doveva sopportare ed è facile immaginare che le cee (ceche, avannotti di anguilla) disgustate cambiassero strada o morissero di asfissia.

Gli uccelli invece non fecero una piega, anzi,  grazie alla creazione di ampie zone private di sosta, aumentarono notevolmente e furono anni di grandi soddisfazioni.
La caccia primaverile offriva ancora grandi soddisfazioni sia ai cestaioli che ai pedonatori.

Gia dalla prima luna di febbraio capitavano giorni di grande passo di mezzani (codoni,fischioni ma se c’era acqua sufficiente anche uccelli da tuffo), poi, beccaccini, gambette  e dai primi giorni di marzo rallidi in quantità.

La caccia a pedona di primavera era molto praticata, chi aveva un buon cane faceva carnieri abbondanti, ma bastava avere un canaccio con un pò di passione per riportare sempre qualcosa.

 

Vai alla notizia della prima parte Fucecchio com'era

 

UCCELLI E RANOCCHI 

Spesso mi viene chiesto se in padule vi siano ancora i ranocchi, alla mia risposta negativa mi sento inevitabilmente rispondere: eh, l’inquinamento!
Allora se la persona lo merita mi accingo con santa pazienza a spiegargli che i ranocchi, anche nella vita larvale, cioè da girini, seppure muniti di branchie, possono in carenza di ossigeno, ingerire piccole bolle d’aria quindi, nel tratto intestinale, assorbire l’ossigeno in esso contenuto.

A circa due settimane di vita le branchie regrediscono e i polmoni si sviluppano permettendo la normale respirazione aerea, pertanto questi anfibi possono vivere bene anche in acque povere di ossigeno.

D’altro canto, diminuendo l'ossigeno, aumentano per loro le possibilità alimentari in quanto, da un lato, l’arricchimento delle acque in sali minerali come azoto (deiezioni umane e concimi chimici) e fosforo (detersivi) provocavano abnorme sviluppo di fitoplanton, cibo di elezione dei girini, e di alghe, le quali, andando in putrefazione, favoriscono lo sviluppo dei chironomidi.

Al tempo stesso, quando il padule era in quelle condizioni di inquinamento,  la  diminuzione dei pesci, in particolare delle gambusie, favoriva l’aumento delle zanzare che, durante la vita larvale vivono nell’acqua ma respirano aria stando a pelo d’acqua.

Vi posso assicurare che in padule nessuno aveva mai visto i ranocchi come in quegli anni ’70.
Dobbiamo anche dire che fuorchè qualcuno che andava a frignolo, o li balzellava con la classica canna, nemici ne avevano ben pochi.

Allora le sgarze (nitticore) erano di passo primaverile e fra l’altro in mancanza di meglio da mettere in pentola, rischiavano anche una fucilata per cui dopo una breve sosta, proseguivano per i luoghi di nidificazione, infatti  nessuno aveva mai visto un nido di sgarza in Padule.Solo qualche nido di tarabusino.

Quando le tiepide sere d’aprile si andava a mangiare un pezzo di pane sul ponte di Salanova   in attesa del buio, il canale del Capannone di un colore grigio antracite, esalava  fetidi odori che ti chiudevano lo stomaco, ma quando, acceso il lume a carburo ti inoltravi sui pezzi (striscie di terreno) il concerto dei ranocchi sovrastava ogni cosa, l’acqua aveva ancora l’odore dell’erba fresca e una coppia di marzoli ritardatari che si impennava verso il cielo stellato ti faceva pensare che ancora tutto fosse come prima.
Rare volte capitava, specie con la luna, di incontrare un branco di gabbiani comuni in predazione, ma nessuno pensava potessero arrecare seri danni.

Pesci buoni se ne pescavano sempre meno, i due canali in particolare erano divenute fogne a cielo aperto e soprattutto nelle zone dove le acque ristagnavano più a lungo anche le specie idrofite si andavano rarefacendo.

Nel ’75 il livello di degrado era tale che decisi a malincuore di cambiare genere di caccia per non assistere a quello sfacelo.

Ma il primo amore non si dimentica e pur non andandoci più cercavo di essere aggiornato.
Agli altri interessava solo il carniere che anzi era più ricco degli anni precedenti, vediamo cosa era successo.

Padule di Fucecchio

Da sempre il nostro non era stato un luogo di sosta,ma di pastura; le anatre di giorno stavano tranquille a farsi cullare dalle onde del mare oppure nei boschi allagati delle riserve di S.Rossore o del Salviati e la notte venivano in pastura da noi.

Pertanto, quando si andava al cesto si sentivano levare centinaia di uccelli che andavano verso il mare, si sparava ai pochi ritardatari ed era raro rivederli fra giorno.

Ciò poteva capitare solo nei giorni di passo, quando faceva una mareggiata, o se il padule era gelato per cui gli uccelli non avevano potuto alimentarsi a sufficienza.

In Padule  c’erano solo due piccole riserve (quella  del Banchieri e quella del Settepassi) con un’ estensione complessiva di una sessantina di ettari, molto cacciate e mal gestite, erano tempi nei quali sarebbe stato inconcepibile pasturare.

C’erano anche due piccoli fondi chiusi confinanti, chiusi  per modo di dire, perché in effetti tutti ci facevano una rapida incursione.

Negli anni ’70 invece, nel fondo chiuso denominato la Monaca  fu assunto un bravo cacciatore che oltre a governare gli uccelli con quintali di granaglie, era presente giorno e notte e faceva contravvenzioni a tappeto anche a chi, sparando fuori del reticolato, faceva cadere  i pallini dentro.
I risultati furono immediati e entrambi i fondi chiusi si riempirono di anatre.

La riserva del Settepassi scomparve alla fine del’50 e quella del Banchieri fu affittata da un pistoiese che aveva fatto fortuna a Torino e acquistò anche circa 250 ettari di terreni, ove costruì anche la sua residenza.Alcuni di questi terreni si trovavano ai bordi del padule e con imponenti e costose opere li riallagò e vi ottenne la concessione di riserva di caccia.

Seguendo i consigli di bravi cacciatori locali, nel giro di un paio d’anni la riserva si ripopolò  di uccelli che venivano cacciati con giudizio, lasciando ampie zone indisturbate.
Mentre molti uccelli continuarono lo spostamento dal padule al mare, altri vi svernavano stabilmente, levandosi solo la sera per andare in pastura.
Evidentemente in quegli anni il padule offriva ancora, nonostante gli assalti ricevuti, possibilità alimentari per i selvatici.

Nel frattempo erano mutate le condizioni socio economiche delle popolazioni locali, le stalle si erano progressivamente svuotate, il pattume non serviva più e la plastica aveva sostituito sara e sarello per fiaschi e seggiole.
La cannella dominava incontrastata soffocando ogni altro tipo di vegetazione e rendendo impossibile la pastura degli uccelli.
I cacciatori falciavano i chiari a frullana, .ma sempre più spesso, aggiungendo danno a danno, appiccavano il fuoco.

Qualcuno ideò allora delle gabbie di ferro al posto delle ruote posteriori del trattore con il duplice scopo di evitare l’affondamento e schiacciare la cannella; non contenti davano anche fuoco.
Questi incendi, oltre che a distruggere  molluschi e invertebrati, eliminarono tutti i gerbi di sarello (carex caespitosa) caratteristica peculiare del nostro padule.

Intanto, pur non andando più in padule, passando per le vie perimetrali avevo notato la presenza di garzette e nitticore durante il periodo estivo, poi seppi che avevano nidificato nelle alberete della Calletta, andando via via aumentando negli anni successivi, spostandosi   in una cerreta della zona di Massarella.

Avevo anche notato che erano stati costruiti alcuni depuratori e che le acque di alcuni immissari stavano riprendendo un colore più naturale; rimanevano seri problemi, tuttora irrisolti, sul lato est del padule.
Nel 1987 andai in pensione e ricominciai a rifrequentare il Padule sia per la caccia che per la pesca.
La prima cosa che notai, salpando le mie reti, fu la predominanza di specie alloctone rispetto a quelle tipiche.

Nel giro di un paio di anni ne censii cinque nuove oltre alle tre presenti già prima della guerra.
Le carpe, prima rare, erano aumentate in modo esagerato sia nella varietà classica che in quella di Galizia.
Il luccio merita un discorso particolare.
Durante le piene invernali, dall’Arno rimontavano un certo numero di grossi lucci che, fra gennaio e febbraio deponevano miliardi di uova per poi finire in qualche rete o ritornare in Arno.
Devo dire che a memoria dei vecchi pescatori non si ricordavano catture di grossi lucci, diciamo sopra i tre chili, è pensabile infatti che il maggior grado di fertilità, di istinto alla riproduzione e migratorio, sia massimo  a quelle taglie.

Gli avannotti di luccio crescevano rapidamente, specialmente se si verificavano piene tardive che apportavano ossigeno e nutrienti e alla fine di maggio si aprivano le pesche per favorire lo sgrondo delle acque e la fuga dei pesci verso le relle.
Il luccetto da fritto, detto localmente chiavacciolo, misurava all’inizio una dozzina di centimetri per crescere rapidamente fino ai venti ed oltre a settembre; esso rappresentava il maggior reddito estivo delle pesche.

Una buona pesca non ne vendeva meno di dieci quintali l’anno; se uno pesa in media trenta grammi, fate voi il conto di quanti ne venissero catturati. Ma ciò non creava problemi alla popolazione infatti ogni anno c’erano sempre gli stessi.
Diceva un vecchio pescatore, magari esagerando un pò, che bastavano dieci lucce per ripopolare tutto il padule.

Ritornando alle mie osservazioni, notai che le tinche seppure presenti erano in diminuzione e in particolare scarseggiavano le nuove nascite: ciò si spiega facilmente considerando la minore adattabilità alimentare della specie e la minora aggressività.
Ogni visita offriva una scoperta, che fosse un insetto, un mollusco, un uccello o una specie vegetale.
Le nutrie, avvistate già dagli anni ’70, aumentavano a vista d’occhio, ardeidi di tutte le specie in estate si contavano ormai a migliaia e i primi aironi cinerini avevano iniziato a svernare.

Capitava anche l’avvistamento di qualche tartaruga acquatica sulla cui identificazione non sono certo, ma dubito trattarsi della specie italica bensì di quelle ornamentali  credo di origine americana.
Sempre più spesso trovavo grossi molluschi che poi seppi chiamarsi anodonta, provenienti dall’est Europa.

Penso che siano giunti, in forma larvale, attaccate alle squame dei pesci importati per la pesca sportiva, infatti  furono rinvenute in un lago di pesca.
Nei primi anni ’90 le specie vegetali censite dal “Progetto pilota per la salvaguardia e la valorizzazione del Padule di Fucecchio” del ‘76 erano ancora tutte presenti.

Vai alla notizia Uccelli e ranocchi

 ARRIVA IL GAMBERO DELLA VIRGINIA, LA DISFATTA

Nel 1992,  la chiusura della caccia fu inesorabilmente fissata al trentuno di gennaio. Durante il febbraio-marzo in alcune giornate il padule pullulava di uccelli di ogni specie, ricordo giornate nelle quali i branchi di codoni si succedevano gli uni agli altri senza soluzione di continuità.

Nella settimana di S.Giuseppe capitavano giornate di marzaiole da dare i brividi, poi seguivano i trampolieri di ogni specie che talvolta sostavano fino a tutto aprile, un vero spettacolo.

Da come era ritornata la vita era logico pensare che il Padule sarebbe sopravvissuto agli attacchi dell’uomo.

Probabilmente le acque ricche di inquinanti organici degli anni passati avevano sedimentato, liberando durante i processi di umificazione enormi quantità di sali minerali e creando un sistema eutrofico.
Certo,mi rendevo conto che alcune catene alimentari tradizionali si erano spezzate ricreandone altre di minore stabilità biologica.
Un anno prevalevano le scardole un altro le abramidi a vantaggio dei consumatori primari:aironi e lucci;  questi ultimi registravano incrementi ponderali mai visti: 250 grammi a settembre, 700 dopo un anno di vita.

Memorie di un padulano

Nel 1992 le nascite dei luccetti diminuirono drasticamente e nel giro di pochi anni si ridussero a zero: non mi chiedete perchè, posso solo dirvi che i gamberi non erano ancora arrivati e l’acqua era ottima, forse come non era mai stata neanche cinquanta anni prima.
Lucci ne catturavamo ancora molti, ma tutti di età superiore all’anno; non c’era più ricambio.
Nel ’94 in tre amici con lo spinning ne catturammo più di cinquecento (rilasciandoli quasi tutti).
A questo proposito vi voglio raccontare un episodio.
Siccome li catturavamo in zone molto limitate, mi sorse il dubbio che alcuni potessero essere gli stessi, allora con un’apposita pinza gli mettevo un occhiello alla coda che, se fosse anche caduto doveva lasciare un buco; bene, lucci marcati non ne catturammo mai.
Un giorno mi raccontarono che alcuni andavano a pescare i gamberi a Massaciuccoli, sembra fossero fuggiti da un allevamento (i giornali ne avevano parlato, ma non vi avevo dato peso).
Volli vederli e mi resi conto trattarsi proprio del gambero rosso della Virginia.
L’anno dopo un pescatore mi disse che ogni tanto ne chiappava uno, infatti dopo qualche mattina ne potei fotografare un paio.
Pensai che l’allarmismo fatto dai giornali sul loro conto fosse esagerato, avevo assistito all’invasione dei persico sole, dei pesci gatto,dei persico trota poi nel giro di pochi anni l’equilibrio si era ristabilito. Mi sbagliavo di grosso.
 
Nel giro di un paio d’anni divennero la maggiore attrattiva del padule, intere famiglie migravano in frotte lungo fossi e canali muniti di canne, guadini, retini e chili di esca tipo fegato, rognone, per catturare le ambite prede che poi opportunamente spurgate avrebbero dato gustosi sughi.
Provai anch’io, li feci in guazzetto, al sugo secondo le ricette che andavano per la maggiore e che i pescatori in gran segreto si scambiavano.
Sia io che i miei amici li trovammo assolutamente immangiabili:duri, stopposi e del tutto privi di ogni sapore; questo forse è l’unico pregio.
Aironi, gabbiani e cornacchie ci si facevano d’oro incrementando di anno in anno le popolazioni.
Un giorno notai che molti storni nidificanti sui tetti di Massarella andavano al pascolo in una zona palustre semiprosciugata .
 
Mi appostai allora munito di cannocchiale sulla traiettoria e con grande stupore vidi che, nel ritorno al nido, recavano nel becco un gamberetto, grande esempio di adattamento ambientale!
All’inizio del terzo millennio gli equilibri alimentari erano completamente sconvolti, solo le specie troficamente legate al gambero prosperavano, le altre soccombevano.
Le anguille che montavano dall’Arno in discreto numero si erano adattate benissimo al nuovo tipo di dieta, dimostrando incrementi ponderali imprevedibili.
Ogni dieci chili di anguille più della metà superavano i trecento grammi di peso.
Le carni delle anguille più grosse hanno addirittura acquistato un colore salmonato oltre che un gusto squisito.
 
Intanto mi accorgevo che le  tinche  erano  ormai estinte  e i luccierano  in rapida diminuzione, dato che ormai da anni non si avevano nascite, ma anche altre specie stavano diminuendo.
 Mi preoccupava soprattutto che stavano diminuendo anche molte specie vegetali, così scoprii che i gamberi si nutrivano anche dei germogli delle idrofite.
 
La situazione attuale del Padule è a dir poco tragica; dal ’92, quando feci un censimento dei biotipi presenti, le specie vegetali tipiche sono estinte al 90%, in piccola parte sostituite da specie ammoniacali e ruderali.
I ranocchi si possono considerare estinti, così come la natrice, tre specie di pesci e una cinquantina di altri invertebrati.
Si sono altresì rarefatte o sono scomparse numerose specie di uccelli, soprattutto durante il passo primaverile.
 
Basti pensare a titolo di esempio che in tutto il mese di marzo ho avvistato un centinaio di marzaiole, ammesso di non aver contate le stesse più volte, e non ho mai sentito cantare un voltolino.
Indubbiamente, come ho precedentemente osservato, la nascita dei lucci era in calo prima della comparsa del gambero, i ranocchi, insieme ai rospi, sono stati decimati  dagli ardeidi, ma ritengo che la scomparsa di quasi tutte le specie vegetali o animali è da attribuire al gambero.
Ho preso in considerazione varie ipotesi fra cui l’inquinamento e la presenza di diserbanti nelle acque.
L’inquinamento come ho già detto è stato prevalentemente di natura organica con presenza di metalli pesanti nei limiti e pH vicino al neutro; semmai, in passato sono risultati bassi i livelli di ossigeno disciolto, ma ciò non influisce sulla vegetazione.
 
Altrettanto dicasi per la presenza di diserbanti; anche negli anni in cui era legale l’uso dell’atrazina le analisi della ASL (allora per fortuna non c’era l’ARPAT) non ne hanno mai rilevato la presenza.
Questa è la storia vissuta, goduta e sofferta degli ultimi cinquant’anni del padule di Fucecchio, un raro ecotipo sul quale è arrivata la parola FINE anche se centri di ricerca e documentazione, province, comuni, associazioni ambientaliste e furbetti vari, avendo scoperto che è una bella vacca da mungere, fanno finta di niente.

Giovanni Franceschi

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