La scoperta di un futuro migliore passa per un inevitabile passo indietro? Tutto ormai fa pensare che sia così, a partire dallo sgretolio di pilastri che chiamavamo potere d'acquisto, lavoro, pensione, famiglia, casa. Cose che eravamo abituati a dare per scontate ma che ora, attaccate una dopo l'altra da una crisi che sembra non voglia cedere il passo alla crescita, diventano quasi dei tenui miraggi. E mentre i “prodotti” finanziari crollano a picco, gli investitori scappano, il tasso di disoccupazione cresce, un po' per scherzo, un po' per davvero, le persone iniziano a trovare conforto e sicurezza nelle attività che sembrava fossero destinate a scomparire, spazzate via dal progresso, come la piccola agricoltura, la pastorizia, l'artigianato. E' il boom delle autoproduzioni, delle cooperative agricole organizzate, degli orti pubblici, dei gruppi d'acquisto solidale. Vi sono addirittura nuovi sistemi di investimento che propongono l'acquisto di quote sociali che verranno ripagate in frutta e verdura. Segno evidente che sta diventando più saggio investire in carote e cipolle, che in operazioni finanziarie e titoli di stato!
In tempi di recessione, lo sappiamo dai racconti di vacche magre degli anziani, c'è una sola cosa da fare: rimboccarsi le maniche e andare avanti. Come fu nell'immediato dopoguerra passato alla storia come uno dei momenti più alti di questa martoriata nazione, per ingegno e buona volontà. Ma se allora si trattava di ricostruire case, ponti, ferrovie e creare da zero una nuova economia basata su modelli di sviluppo e di vita importati dall'America, ora, di fronte alle estreme conseguenze di quel mondo in declino, non resta che piantare i semi di nuovi modelli basati sulle cose concrete.
L'economia di conseguenza dovrà a mano a mano integrarsi ad indici che misurino cose come la tutela della biodiversità, il paesaggio, la felicità dei cittadini e la loro qualità della vita, la solidarietà verso gli altri popoli della terra. Tutte cose, queste, rilanciate con forza anche durante il summit Rio +20, che però come tutti avevano previsto, non è stato in grado di progettare coraggiosi slanci economici verso la sostenibilità, se non a belle parole, tutte da definirsi in seconda battuta. La strategia approvata dai paesi Onu promuove l'economia verde, ma non dice come attivarla nel concreto, nè stanzia fondi per aiutare i paesi emergenti a cambiare i propri modelli super inquinanti. Siamo ancora al punto di partenza, verso un cammino sostenibile che è tutt'altro che definito.
Su questi temi cruciali qualcosa è emerso anche durante il Forum Permanente delle Nazioni Unite sulle questioni indigene di qualche mese fa. Il patron di Slow Food, Carlo Petrini, in quella sede ha richiamato proprio alla centralità del ruolo dei contadini, visti come depositari di un sapere e un patrimonio immenso, in grado di rivoluzionare il modo di fare economia. Lui pensa ad una alleanza tra i popoli contadini che possa fare da stimolo ad un futuro migliore per tutti e che fare dei passi indietro in questo senso, magari recuperando tradizioni e saperi antichi, in realtà significhi camminare avanti, e dare dignità al nostro ruolo sulla terra. Il cambiamento insomma non può che partire dalla terra, dal suo rispetto, dalla salvaguardia della biodiversità.
“L'analisi della realtà – dice Petrini – ci dice che molte buone pratiche e il sapere empirico tradizionale dei popoli indigeni meritano di essere studiati con attenzione per il bene della nostra Madre Terra”. In tutto questo, per Petrini, la figura fondamentale è quella parte di umanità che si prende cura della terra. “Non ho mai capito – ha detto Petrini durante la fortunata trasmissione di Fazio e Saviano su La7 - perché viene considerata l'ultima ruota del carro. Le alte gerarchie del sapere, della conoscenza e della politica non lasciano spazio ai contadini ai pastori ai pescatori e alla parte più sensibile di essi, le donne, gli anziani e gli indigeni, eppure grazie a loro condividiamo il cibo, l'energia della vita. Essi conoscono le cose intime della vita, le proprietà delle erbe, il cambiamento del tempo, i movimenti delle stelle, le fasi della luna, le buone pratiche per accudire l'orto e allevare gli animali. Figli della terra, sanno governare il limite nelle loro azioni, praticano la vera economia”.
E' con la terra che i nostri conti non tornano. “Riconciliarci con la terra – ha concluso Petrini - è l'unico modo per voler bene a noi stessi e agli altri e forse è l'unico modo per uscire dalla crisi. Le buone pratiche della lotta allo spreco della condivisione e del dono si realizzano con lentezza senza frenesia né ansia”. Proprio come scorre lenta e dignitosa la vita di ogni singolo contadino da quando l'uomo è apparso su questo pianeta.
Buone pratiche che ben fanno intendere il collegamento fra la nostra caccia e la “cultura rurale” che, necessariamente, non può non prescindere da simili principi. Non dobbiamo dimenticarci, infatti, che nel nostro piccolo, checchè ne dicano certi esagitati detrattori, anche noi contribuiamo direttamente e indirettamente a far sì che questo ciclo virtuoso possa resistere nel tempo. E, insieme, senza proclami, diamo il nostro contributo al riequilibrio del dare e dell'avere. Perchè fra l'altro, anche la selvaggina rientra nel novero degli alimenti e la sua “impronta ecologica” (come la nostra, di semplici cacciatori che vivono in campagna, in semplicità, condividendo il piacere della tavola imbandita con quanto siamo in grado di acquisire andando a caccia) è molto meno pesante di quella di tante altre persone che vanno in giro ostentando equivoci simboli assurti ad emblema dei salvatori del pianeta.
C.F.