Della libertà dei cacciatori


venerdì 22 gennaio 2010
    

I messieurs, i signori, hanno boschi accarezzati da un aulico sole; hanno strade piane e strade verdi per il trotto e il galoppo. Pel trotto serrato, di quando sortono a caccia, ancora come nel medioevo. Hanno cavalloni balzani con naticone alla Battaglia sul Massenzio; ma con le code mozze, a scopetta.

Vanno a cavallo in tuba, coi servi rossi e servi bianchi. Sono gli ultimi misteri di Diana che i messieurs compiono, celati agli occhi degli spettatori profani. V'è un maestro di battuta; e un guidatore di cani. Bottoni d'ottone dorato con stemmi e iniziali.

Vanno di mattina, come questa di settembre, per strade verdi, piane, stillanti: alle gesta sono scenari i rugiadosi quercioli, ridondanti di edera su fondali violetti. E' la nobilità che si diverte. Veste dura, e goletto, anche quando va a caccia.

La etichetta, nella libertà – la nobile livrea – io però la detesto, io credo che tolga gran parte di gioia a sé la nobilesca Diana; toglie loro la non mai tanto amata libertà, quanto da chi non abbia tenute al sole o bandite, e servi, e molti cani e cavalli: noi la amiamo la libertà selvaggia, quale unica nostra soave propriziatrice d'amore con la natura.

I messieurs, cacciano; fan bottino di cervi, daini, volpi, lepri, fagiani, starne, pernici: selvaggina che ha perso, anch'essa l'unto del nobile e la patina dell'oro. Ma cervi, daini, volpi, fagiani e starne ce li han posti i maestri di caccia, nei luoghi dove poi vanno ad ucciderli i signori. Qual gusto possono prendere nell'uccidere bestie già schiave del bosco, già serve di casa?

Nessun gusto, secondo la poesia della caccia: che consiste nello andare soli, in cerca di ventura, per luoghi che non sappiano di teatro; naturali boschi, semplicissimi campi; liberissime rive di fiumi e i macchioni e i torrenti.

Il non sapere se ucciderò, oggi, un fringuellino oppure se il vento e la burrasca rechino, ai piani campi, uccelli da lontano, o che, negli acquitrini c'è forse la folaga; il non sapere, e cercare e trovare: l'andare per l'antica questua di natura: quest'è il piacere della caccia.

Era il padre Adamo quello che stirava le braccia, al rutilante mattino, fra le cortine di nebbia, e puntava i piedi e sbadigliava con soavissima voluttà; stringeva un pugno, allungava un braccio, si grattava i capelli ricciuti; si stropicciava gli occhi, si soffiava il naso con le dita. Intanto, Eva, la bella, e senza camicia, coperta d'una pelle d'orso, dormiva buttando quel fil di spuma dalle labbra semiaperte proprio della gioventù che dorme bene, e in specie delle femine dappoichè siano state serrate dall'amplesso del maschio.

Adamo agguantava la lunga asta di frassino; si caricava il tascapane d'una decina di ciottoli acuti; andava pei boschi, o per ignoti paesi di alberi carichi di pesche o di prugne della regina; o andava per radure popolate di canti di uccelli. Ritornava alla caverna ed Eva aveva terminato di scuoiare la lepre. Non l'aveva scuoiata col nostro coltellino affilato: ma coi denti o con un ciottolo; né se la mangiavano in salmì ancora stato scoperto dai cuochi balzacchiani. Il fuoco, Adamo ed Eva, lo traevano dai piedi dei vulcanelli che, allora, non spenti, dovevano crepitare per ogni sommità della collina.

E lo andare a caccia, il desiderio di godere la libertà pei campi, non è che un desiderio, palliato, coperto, di quegli altri, grandissimi e sodisfatti, che dovettero deliziare la esistenza dei nostri primi genitori.
Io dicevo ai ricchi: che han tenute, riserve, bandite o, quantomeno, appostamenti fissi, appostamenti mobili, capanni e le altre brame esose contro i poveri uccelletti. Di tali privilegi godono, i ricchi, e per i quali divieto di caccia è parola inconsistente. Prendono il treno, l'automobile, e quando non trovano selvaggina in un luogo, vanno in un altro, scavalcano monti, trovano laghi; paludi ancora gremiti di uccelli.

Anche, però, per chi rimanga nel suo feudo protetto dal diritto, la caccia non si risolve in parola vana. E i ricchi, nei paesi e intorno alle città, hanno poderi, contadini, amici. Nel proprio podere uno caccia come vuole, pesta se vuol pestare, sul grano verde; fruga, coi cani, se vuole, tra la saggina matura a semenza: fa correre, a zig – zag, i cani pei vigneti. I contadini tacciono. È il timore del padrone che li fa star zitti.
Vediamo allora l'altra parte di essi cacciatori e che è quella dei poveri. I poveri sono o poveri poveri, o i poveri operai e i contadini. I poveri poveri, i bracconieri, è la razza insultata a vanvera. Ne tesserò io l'elogio riconoscendone virtù, un istinto venatorio che fiorisce barbaramente fino al sublime. Alla fine dei conti non è cacciatore se non il bracconiere. Gli altri cacciatori sono rinunciatari della caccia e in tutta un'annata ammazzano si e no un'allodola e due passeri.

Ha fiuto, il bracconiere, del suo cane, cane che è bastardo, ma, di caccia, ne fa assai, ed è, di regola, un bracchetto sdrucito, dinocciolato, gli si contano le costole. Bracchetto che si nutre frugando tra i mucchi delle immondizie; quelle che gli scopini comunali depongono aia primi campi fuori delle città.
Conosce, il bracconiere, dei poderi, dei luoghi di caccia, albero per albero, zolla per zolla. Trova uccelli, dove altri cacciatori non videro nulla. Se gli domandi d'una covata di uova di tortore , te ne indica due. Una delle quali, tu non lo sapevi, ma era nel tuo vigneto. Il bracconiere fa tiri meravigliosi con polvere da contrabbando. Sa le regole di ogni sorta di aucupio. Sa tendere reti e sa manipolare ogni sorta di vischio. Fugge come il vento sui passi dei carabinieri; sa quand'è che sortono di caserma e l'ora quando tornano. Sa quando passano per le scorciatoie e quando pian piano, stanchi e sudati, rifanno la strada maestra.

Il bracconiere è anch'esso figlio di Diana, e sono gli ingiusti uomini che lo hanno diseredato dei suoi diritti. Del resto anche Adamo era un bracconiere e beato lui non dovere, anno per anno, affliggersi a perdere tempo, a girare per le questure, onde ottenere il rinnovo della licenza di caccia: licenza da caccia che dovrebbe essere non a pagamento, ma con premio a chi riceve, in quanto la caccia è un allenamento fisico che reca gagliardia all'anima.

È, quello dei bracconieri, un libero modo, bello e pericoloso, e per il quale essi si infischiano d'ogni divieto o signoria di caccia. Vanno, semmai, in galera, e lì dentro stanno in pace; riflettono a nuovi sistemi di aucupio; sognano, sul paglione, di stare al capanno; mirano, dalle inferriate della prigione, i nidi delle rondini; tendono lacciuoli dal muretto della prigione ai passeri, che fischiano dal tetto; oppure ai fringuelli che passano anche sopra il cielo delle carceri; giacchè fra i molti uomini carcerati soltanto il bracconiere pensa agli uccelli liberi a volo e magari facendo loro segno di mano spianata a mo' di fucile, o facendolo a branchi di palombe che volteggiano all'orizzonte. E quando i bracconieri hanno riacquistata libertà continuano a bracconare. Nulla la legge può togliere a chi nulla ha da perdere, o soltanto ha da perdere alcuni mesi in carcere.

Detto dei gran signori e dei bracconieri, consideriamo l'altra specie di cacciatori composta di contadini che vanno a caccia dalla tenera età dei quattordici anni fino alla longeva dei novanta.

A novanta, tendono con mani paralitiche tagliole ai passeri: o tirano, a tordi, dalla finestretta di casa; finestretta che dà sopra il mesticaro. C'è un'eller, a giusto tiro, e il vecchio, appoggiato il fucile a bacchetta sui mattoni del davanzale, mira un buon minuto primo, ma il tordo cade. Lo reca a vendere in piazza o per le case degli impiegati, in scambio di quattro cartucce.

Ora vediamo cosa fa il giovine villano: sorte di casa con i buoi, ma reca con sé il fucile nascosto nel tronco vuoto d'un albero d'olivo. Lì vicino il giovane si mette a lavorare.

La caccia si fa a momenti; in altre ore, in quelle morte, d'uccelli non ne passa uno. Ciò sa il giovane villano; ed è il momento buono quello che egli attende. Lo attende, mentre pacificamente lavora: “garbatino”, va a destra! - “innamorà”, va a sinistra! I buoi, sotto il pungolo, o alla voce soltanto, obbediscono. Di solco in solco, egli è già oltre alla metà del lavoro quando incominciano a passare uccelli: o sono storni che vanno girando di quercia in quercia, o son palombe che frusciano a giusta altezza, di nulla timorose, perchè non vedono che la solita ombra lavorare quieta sul nuovo solco. Il contadino corre allora al fucile e le palombe cadono.

Chi è che reca alla città, sul carro delle umide legna, la lepre calda, la lepre col ramo di rosmarino infilzato nelle interiora?

Le lepri sono dei contadini; ci vuol troppo tempo, troppe volte  a ripassare a scovarle se non le indica, a noi cittadini, qualche villano. E i lacciuoli, le tagliuole, sono pei contadini; e le quaglie, in tempo proibito, sono pei contadini: le pigliano con reti e truffello senza far chiasso di fucilate; intanto i carabinieri passano per la strada maestra e si asciugano il sudore.

Vedremo finalmente, che ne è tempo, sopra a chi grava, e a chi pesa, il divieto di caccia. Pesa proprio sopra di noi, né ricchi, né poveri, né padroni di riserve, né bracconieri, né fattori di campagna, né villani.
Si va in un campo, a caccia e, se il contadino non vuole, uno deve tornarsene indietro. La legge dà facoltà di cacciare laddove non siano cartelli che ne facciano speciale divieto; ma non dà possibilità di non leticare coi contadini prepotenti e che, quando non hanno voglia di volerti nel loro podere, ogni scusa è buona ed ogni guasto lo gridano per immenso: dicono si fa danno passando attorno casa perchè hanno conigli, grande abbondanza di conigli, sparsi per l'aia. Il cane distingue la lepre dal coniglio; ma non sempre. Inoltre, i villani non si limitano a tenere conigli intorno casa, ma li lasciano per canneti, siepi, ai confini del campo. E così, il cacciatore ha sempre sopra di sé la voce del villano: - Ehi! Fate piano che in quel canneto ci tengo i conigli! - Oppure: - Intorno casa non è creanza passare, abbiamo i conigli!

Se bastassero i conigli: - Per questo bagnato non passerete mica, mi fate danno! - Oppure: - I cani per l'orto non ce li voglio! Non voglio cani nel vigneto! - Quale danno faccia un cane che a zig zag perlustra un vigneto, io non lo capisco. Capisco il danno a sparare in direzione del vigneto; cioè stando il cacciatore col cane entrambi dentro la vigna; ma se il cacciatore sta fuori, in attesa della lepre, che sta nel vigneto, qual danno si arreca all'uva? Un danno si arreca, ossia si toglie, al giovanotto la possibilità di uccidere la lepre lui o di indicarla all'amico falegname o al sarto Picaca. (- Venite giù a trovarmi chè nel vigneto c'è la lepre!). Piacere fatto, ne sottintende uno da ricevere: ma è frottola un cane faccia danno perlustrando in un vigneto.

Il divieto di caccia pesa dunque sopra i mezzi borghesi e sopra gli impiegati. Essi stanno tra la legge  da un verso e i villani, i latifondisti, i padroni delle riserve dall'altro.

E siamo arrivati a uno, per poter andare a caccia, doversi raccomandare al sordido villano: ungerlo, moinarlo, regalargli una mezza scatola di polvere nera; regalargli il pacco di borre, oppure la scatola delle capsule a percussione: di quelle rigate di ottone per i fucili a bacchetta; e così soltanto, cioè in piena regola di ricatto, il contadino acconsente il cacciatore vada, e i cani frughino il canneto e il vigneto.

(Tratto dal libro L'Orso di Luigi Bartolini, ed. Vallecchi, 1933)


0 commenti finora...