Il racconto di Zaccaria


lunedì 20 marzo 2017
    

Era nato da genitori agricoltori e pastori che coltivavano grano e praticavano la pastorizia sui terreni della Murgia barese. Nella stagione autunnale raccoglievano carboncelli e funghi di ferula per venderli a cacciatori di passaggio presso la masseria, dove si potevano acquistare anche latticini vari. Il piccolo Zaccaria era destinato a diventare pastore e coltivatore come suo padre.

Già dall'età di dieci anni si allontanava con gregge e cani guardiani per pascolare. Di tanto in tanto riposava, sedendosi su grossi massi di pietra che popolavano quella terra. Il riposo non era noia e inattività perché il fanciullo oltre a seguire il pascolo, era attento a quanto succedeva intorno. Ad ottobre si incuriosiva agli stuoli di allodole di entrata che avrebbero svernato nelle stoppie, ne approfondiva il volo ondulato, gli scarti aerei e gli intermittenti pigolii. Imparò a richiamarle stringendo le labbra ed emettendo il caratteristico tio–tio. Perfezionò i suoi richiami vocali quando riuscì ad attirare la curiosità degli alaudi col caratteristico trillo.

All'arrivo dei cacciatori dava informazioni sul passo, indicando loro i terreni dove gli uccelli pasturavano in abbondanza. Si interessava alle civette e a tutto quanto riguardava la caccia. Insomma era diventato amico dei cacciatori e dei raccoglitori di funghi. Nel mese di novembre, quando la caccia era ancora in atto, Zaccaria era attratto dalla presenza di uccelli di cui non conosceva il nome, ma dei quali aveva appreso il caratteristico fischio: erano i pivieri dorati. Per richiamarli adoperava un tronchetto di canna di bambù, adattato al fischio del piviere dal nonno paterno. Aveva conosciuto anche la lepre che pensava fosse un coniglio dalle orecchie lunghe e dal pelo rossiccio. Era la tipica lepre murgiana, piccola, veloce e scattante, che spesso gli sfuggiva di sorpresa, impaurendolo.

Passarono gli anni e il bambino di una volta si fece giovane, desideroso di cacciare col fucile che il genitore possedeva come arma di difesa. Finalmente si convinse a frequentare la scuola, sia pure quella serale. Imparò a scrivere, a leggere e a far di conto. E non solo. Condivideva con gli amici tutto ciò che apprendeva dalla natura. E lo stesso insegnante era curioso di ascoltare i racconti del ragazzo. Erano narrazioni ricche di notizie e conoscenze assimilate nella terra natia. Si dimostrava molto versatile nella descrizione dei particolari tanto che l'insegnante consigliò i genitori a lasciarlo proseguire negli studi. Si laureò in filosofia, ritenendosi sempre un appassionato naturalista e cacciatore.

Col padre organizzò un'azienda agricola nella quale lavorava, anche se durante la settimana si inventava ritagli di tempo per dedicarsi all'attività venatoria. Non aveva bisogno di spingersi lontano. Ad ottobre aspettava le allodole che cacciava nei terreni di sua proprietà. Lasciava marcire le stoppie fino a tutto novembre, e quando i campi si riempivano di alaudidi, invitava gli amici alla caccia. Pretendeva però la correttezza nel rispetto delle regole del calendario venatorio regionale. Se qualcuno usava in tale caccia i richiami illeciti, era allontanato.

Nelle sue riflessioni sosteneva che la caccia alle allodole, fatta con arte, ti riporta all'essenza stessa della libertà dei cieli, alle immagini sconfinate delle verdi pianure della Murgia. A fine novembre lasciava la caccia alle allodole per dedicarsi ai trampolieri novembrini e cioè pivieri e pavoncelle che dai vari appostamenti di canne e frasche attirava con fischi e stampi. Anche in queste cacce non mancavano gli amici. Il freddo mese dei morti lo rimandava indietro nel tempo, nel ricordo degli avi pastori e agricoltori che gli avevano parlato dei pivieri come forieri del freddo e della neve, e dei chiurli portatori di inverni lunghi e uggiosi, ma anche delle graziose pavoncelle non sempre facili al tiro per quel volo con scarti imprevedibili.

Gennaio era per Zaccaria il mese più freddo dell'anno che lo riportava con tristezza al tempo che passa. Aspettava stuoli di germani reali e fischioni e codoni per i quali aveva preparato degli specchi d'acqua ben curati. Ma gennaio era anche il mese delle oche per la cui caccia era necessario preparare gli appostamenti interrati, così da non suscitare il minimo sospetto. Ma se gli inverni non si annunciavano rigidi, le oche non sarebbero arrivate. Questi uccelli dal volo lento e possente lo riportavano alle solitudini nordiche, ai freddi glaciali dove non esiste ombra umana, al senso stesso del nulla.

Poi si chiudeva la stagione della caccia e Zaccaria non dimenticava di essere cacciatore, trasmettendo ai giovani il suo patrimonio di cultura naturalistica e venatoria. Così da prepararli bene all'esame di abilitazione venatoria. E lo faceva con passione e senza compensi, in modo del tutto gratuito. Tirava avanti i suoi giorni, convinto di non legarsi a nessuna donna per non mettere al mondo figli che sarebbero stati degli infelici, dando credito alla filosofia di Schopenauer. Molti amici anche se non condividevano tale scelta, la rispettavano.

Cacciatore, agricoltore e filosofo, Zaccaria era a suo modo felice. Incominciò ad adombrarsi e intristirsi quando leggeva della Murgia come possibile Parco nazionale. I terreni di proprietà sarebbero rientrati nel parco e sarebbe stata la fine delle sue cacce. Comunque tirò avanti per molti anni ancora. Il parco dell'Alta Murgia era di là da venire. E partecipò come proprietario a convegni, discussioni e incontri, sostenendo che nei parchi era possibile una caccia sostenibile, soprattutto nelle sue terre dove i migratori erano di passo, e dove si sarebbero potuti cacciare almeno una volta la settimana con tutto il rispetto dell'ambiente.

Ma si imbatteva contro il muro di gomma degli ambientalisti che non avrebbero mai permesso tempi e spazi alla caccia. Zaccaria sosteneva che l'uomo è natura nella natura, che non può essere considerato il non io assolutamente antitetico alla natura, bensì momento dialettico nella vita evolutiva della natura. Ma le sue tesi non erano ben viste soprattutto dalla intransigenza monolitica degli avversari. In realtà nel corso della progettazione dell'area protetta, si ridusse l'estensione e si concepirono delle zone a macchia di leopardo, per lasciare spazio anche alla caccia.

Ma le sue terre erano il cuore del parco e non ci fu niente da fare. E Parco fu di sessantamila ettari. Zaccaria accusò il colpo e si lasciò andare ad una inesorabile depressione che lo portò alla morte. Là dove l'uomo, il cacciatore e il filosofo voleva sobrietà, intelligenza e riflessione, oggi abbondano sconsideratamente cinghiali, lupi, cani randagi che addolorano i pastori soggetti ad aggressioni e sottrazioni. Presenze eccessive e pericolose. Il parco, come voleva Zaccaria, deve essere un ambito dove devono crearsi equilibri e sobrietà senza nulla escludere.

Prima di morire ripeteva spesso a se stesso: Meditate gente,meditate! Fatti non foste per viver come bruti ma per seguir virtude e canoscenza.

 

Domenico Gadaleta


1 commenti finora...

Re:Il racconto di Zaccaria

Il racconto di Zaccaria ci pone di fronte alla valenza, l'utilità e la gestione dei parchi, ove si esclude in assoluto qualsiasi presenza umana, sia pure con discrezione, intelligenza e sobrietà. Anche la caccia potrebbe essere tollerata se praticata con discrezione, limiti e controlli opportuni. Purtroppo!!!

Voto:

da Amante della Natura. 22/03/2017 8.07