AMEDEO E LE OCHE


martedì 11 agosto 2015
    

Volavano alte le oche, sembravano enormi sagome inconfondibili nel cielo bruno del tardo pomeriggio che precedeva il tramonto. Erano sette dai petti bianchi, dai colli oblunghi, mentre con potenti battiti d’ali migravano verso sud.

Amedeo, il pastore, sdraiato per terra tra il gregge, le vide, le numerò, si alzò di scatto per osservare qualcosa con più precisione e sorrise esclamando: “ E’ la pioggia!”. In quel pomeriggio di dicembre, di un lontano dicembre degli anni cinquanta, quegli uccelli che si portavano verso le terre del sud, in quell’aria opaca, livida, erano il segno chiaro di perturbazioni che si avvicinavano, che sarebbero durate per molto tempo, erano il segno di un inverno salubre per la terra e le coltivazioni. Nelle terre del sud, dove l’acqua si ricerca come un bene prezioso, le piogge che il cielo manda sono sempre ben accolte. A quei tempi non c’era Bernacca con la sua prosa e con sorella scienza, la meteorologia; c’era la poesia di un volo di oche che annunciava con medesima puntualità, natura nella natura, un fenomeno naturale: la pioggia.

Sul volto di Amedeo apparve il sorriso, la gioia. Viveva di pastorizia, abitando in un casolare, in un angolo della murgia, con sua moglie Maria, coltivando anche degli ortaggi e del grano in alcuni ettari di terreno. Doveva raccogliere per guadagnare il necessario alla sopravvivenza e per aiutare suo figlio Carlo, ragazzo intelligente e studioso, prodotto della rassegnazione e del sacrificio più che della contestazione e del divertimento, che avrebbe voluto fare il medico e aveva intrapreso la strada del dovere, studiando con profitto presso il liceo del vicino paese, dove era ospite della zia materna.

Amedeo, in quel pomeriggio, alla visione delle oche in migrazione, credette e sperò in una buona annata, ma si ricordò pure della sua passione di cacciatore. Quasi giornalmente si recava in paese a vendere i prodotti del suo lavoro e insieme a questi portava, quando capitava di cacciarli, qualche lepre, pivieri dorati e molti pivieri tortolini che abbondavano, in autunno, trovando molta pastura nei dintorni della sua terra, ricca di letame e sterco; anche le oche gli rendevano qualcosa quando c’era il passo, nel cuore dell’inverno. Queste le avrebbe aspettate in quella notte, nella posta fatta per l’occorrenza, ad un centinaio di metri dal suo casolare.

Era allegro, vivace, euforico; mandò subito il gregge nel recinto, eseguì con più solerzia e decisione le operazioni che abitualmente era solito fare e, strano a dirsi, anche il latte che quella sera ricavò dalla mungitura era più abbondante del solito. Riferì alla moglie le sue intenzioni  per la notte e quella, donna di pochissime parole, fece un cenno col capo quasi a voler dire: “Fa’ quello che vuoi”. Amedeo consumò un po’ di pane con della ricotta fresca e, per far passare il tempo, giacchè erano ancora le otto di sera, accese la vecchia radio situata su di un’antica cassapanca, ascoltò qualcosa, ma niente, in quei  momenti gli tornava gradito se non il pensiero delle oche. Prelevò dal chiodo, dov’era appesa, una doppietta S. Etienne a cani esterni, un po’ consunta dagli anni, intascò dei cartuccioni da oche e si avviò alla posta.

Nel tragitto vide l’ombra di una lepre sgattaiolare nelle vicinanze dell’appostamento, ma non ci fece caso, solo le oche desiderava in quei momenti; doveva ad ogni costo incernierarne qualcuna per portarla, all’indomani, nel paese, dal figlio, a segnalargli il benessere, l’abbondanza. Si calò nella posta, sedette su di un masso coperto d’erba e si mimetizzò con le frasche. C’era da aver pazienza e da attendere perché era sicuro che, durante la notte, le oche sarebbero passate. L’attesa, unita alla speranza, rendeva continuamente sveglio Amedeo il quale guardava verso nord, sotto un cielo freddo e stellato che, se non simile ai chiari di luna, lasciava la possibilità di intravedere sagome in volo.

Era trascorsa la mezzanotte e nulla ancora s’era profilato all’orizzonte; eppure il pomeriggio era stato promettente e quelle sette oche annunciavano senz’altro stuoli in arrivo. Pazientò ancora, quando all’improvviso, verso le tre del mattino, sentì uno schiamazzo rompersi nelle tenebre: era chiaro che c’erano oche in giro. Non riuscì ad individuare nessun volo, nessuna sagoma; forse erano uccelli di pascolo, fermatisi in quelle terre, per temporanea pastura; forse era qualche stuolo lontano che non si riusciva a scorgere. Il verso rimase isolato, né ci fu ripetizione alcuna; Amedeo non si rendeva conto di quanto potesse succedere intorno a lui. Le ombre della notte spesso sono ingannevoli nel precisare oggetti e nel percepire suoni e questo, specialmente quando si è soli, fa parte un po’ della paura e della poesia del silenzio. Il nostro pastore ritornò alla pazienza, alla speranza e non fece in tempo a capacitarsi che due sagome nere, voluminose, sembravano uccellacci, sorvolarono il suo appostamento; gli battè forte il cuore e, in quel momento,ne avrebbe voluto fermare i battiti per non essere visto. Erano oche.

Gli uccelli girarono lentamente e planarono  ad una cinquantina di metri dalla posta. Amedeo lo ritenne un tiro impossibile per quelle bestie; si accovacciò aspettando l’evolversi di migliori condizioni per tentare la fucilata. Le due oche, arrivate in silenzio, rimasero immobili per un bel pezzo, a rassicurarsi che nessun pericolo ci fosse nelle vicinanze, poi lentamente iniziarono a pascolare,affiancandosi l’un l’altra. Amedeo guardava, sperava, era in tensione; un uccello gli era scomparso e solo l’altro riusciva a scorgere, mentre si allontanava sempre più dalla posta. Le speranze parevano venir meno, quando alla sua destra, non più lontano di una decina di metri, vide la sagoma nera dell’oca; volle accertarsi che non fosse qualche arbusto o pietra che lo ingannasse, attese qualche attimo prima di azzardare la fucilata e, non appena la testa dell’uccello si mosse e si abbassò, tentò il tiro da fermo, ma il muoversi di qualche frasca insospettì l’animale che intuì il pericolo e si precipitò in volo, schiamazzando e denunciando l’intruso: non fece in tempo a prendere quota che dalla doppietta partirono due fucilate rabbiose a colpire la grossa preda che, a malapena, quando fu raccolta, dimenava le ali, per poi chiuderle definitivamente nel brivido della morte. Era una granaiola che Amedeo portò con gioia nella sua posta, guardandola e accarezzandola più volte a confermare il premio di un sacrificio, di tanta pazienza, di tanto freddo sofferto. Aspettò ancora, sperando fino alle cinque del mattino e, in verità, vide alcuni stuoli di oche, ma tutti fuori tiro tanto che non valse la pena disturbarli con tentativi inefficaci.

Erano le cinque in punto del mattino quando Amedeo rientrò, tenendo stretta nel collo la granaiola che uncinò per il becco, appendendola nei pressi di un finestrello. Cercò di riposare, bastandogli due ore di sonno perché alle sette, col suo carro, sarebbe andato in paese a portare il latte e a mostrare l’oca  a suo figlio. Quando la gioia si insinua sottilmente e profondamente nel nostro essere, lo spirito è sempre sveglio anche se il corpo avrebbe bisogno di riposo. Così capitò quella mattina ad Amedeo e quelle due ore furono trascorse, in attesa della luce, in visioni di sogni, di speranze, di desideri.

Erano le sette del mattino e il nostro pastore, col suo carico di latte e con l’oca nel sacco, avanzava verso il paese,sollecitando il mulo ad un passo più celere. Ci arrivò quasi di trotto e, prima che il suo Carlo si preparasse per la scuola, con l’oca in mano gli andò incontro: “Ci siamo!” – esclamò il padre alla vista del figlio, mentre nel volto sorridente e negli occhi lucidi e schietti di Carlo trasparivano le immagini di un inverno prospero e ricco d’acqua,il rigoglio di una campagna fertile e promettente, il verde e poi biondo ondeggiare del grano fluttuare dolcemente dalla primavera all’estate. Padre e figlio si lasciarono con raccomandazioni vicendevoli. Le festività natalizie erano prossime e Carlo sarebbe stato dai suoi anche per aiutarli.

Passò quell’annata e l’abbondanza promessa si realizzò; anche la selvaggina ebbe il suo peso nel bilancio della famiglia. Vennero altri inverni, altre primavere; Amedeo e sua moglie Maria tirarono avanti in modo alterno. Poi arrivò la gioia del figlio Carlo che si laureò in medicina e sentì il dovere di ricompensare i genitori dei sacrifici fatti. Ma le oche non vennero più ad annunciare pioggia e abbondanza. In quel casolare, sulla murgia, entrò la televisione. Alle oche si sostituì Bernacca ed Amedeo, quando durante l’inverno, sentiva alla TV l’annuncio di perturbazioni in arrivo, prendeva la doppietta e correva ad aspettare, a sperare nel passo. Non riusciva a convincersi, non si dava pace: le oche non passavano più! Avrebbe preferito tornare indietro negli anni; avrebbe preferito ancora essere servito dalle oche e non da Baracca.

 

Domenico Gadaleta
 


2 commenti finora...

Re:AMEDEO E LE OCHE

bellissimo racconto che evoca lontani ricordi che credo mai piu' ritorneranno,lasciando nostalgia a chi quei momenti li ha vissuti.

Voto:

da argo 12/08/2015 12.32

Re:AMEDEO E LE OCHE

Nella memoria della caccia del tempo che fu c'erano dei selvatici che con la loro presenza annunciavano l'arrivo di mutazioni climatiche. E soprattutto la presenza di oche provenienti da lontano erano degli indicatori meteo. Purtroppo tali selvatici da noi si sono notevolmente rarefatti anche se ancora abbondanti nelle terre nordiche. Qualche riflessione va fatta.

Voto:

da Amante della natura 12/08/2015 7.29