Ai colombacci


lunedì 27 febbraio 2012
    

Negli anni quaranta e cinquanta e senz'altro anche prima, molto diffusa era la caccia ai colombacci che si faceva dai capanni aerei che il Comune di Cottanello mandava all'asta. Ciascun cacciatore era affezionato ad un determinato luogo dove realizzava l’appostamento. Di conseguenza quando dal banditore veniva nominato quel capanno, non c’erano antagonismi per l’aggiudicazione.

Più che a ottobre tuttavia, questa caccia veniva praticata a marzo, nel ripasso, sia con le leve ma anche all’aspetto, all’abbeverata, quando nelle fredde mattinate di gelo “i collaroni” si avventavano nei piccoli laghetti della zona.

Francesco, da ragazzo, qualche volta vi partecipò in montagna, alle “Stortelle”, sotto Macchia Porrara, due ore a piedi per arrivarvi. C’erano sempre tre, quattro cacciatori anziani, con i volantini, novità assoluta per lui.

Se il colombaccio si posava fuori tiro, qualcuno sapeva richiamarli: gli “rugava” con la gola e generalmente il piccione veniva.

Quando se “ne mettevano” (si posavano) più d’uno, Francesco prendeva in mano il fucile ma subito: “che fai li scacci?” ed egli piano piano sorridendo lo riposava e guardava la scena degli altri che dalle varie feritoie miravano. “Ci sei?, uno, due: via e i colpi all’ipotetico tre che non veniva pronunciato perché era lo sparo.

Francesco usciva fuori a raccogliere, si limitava ad apprezzare ma non riuscì mai a tirare un colpo. Aveva appena sedici, diciassette anni.

Più tardi seppe da uno di quei cacciatori che era stato suo padre a chiedere loro di ospitare qualche volta suo figlio, solo per imparare, senza intromettersi nelle azioni di sparo.

Perché la caccia ai colombacci da capanno con le leve (i volantini) è una delle più gelose ed ha i suoi riti particolari, le sue abitudini, le sue compagnie.

Nel capanno, nelle lunghe ore d’attesa, quei cacciatori gli narravano dei cospicui carnieri realizzati dopo la prima guerra mondiale con i fucili ad avancarica.

Loro, anziani, raccontavano dei rispettivi genitori, dei parenti, degli amici dando al discorso quel particolare interesse che soltanto il dialetto e la semplicità sanno trasmettere.

Ed ancor oggi affiorano i vecchi nomi dei più accaniti piccionari che solitamente gareggiavano con i colleghi dei vicini paesi di Configni, Montasola e Vacone.

Le notizie degli abbattimenti rimbalzavano nella valle dell’Aia, e a seconda dei venti, nelle giornate di passo, facevano prevalere quando i “montasolini”, quando i “confinari”, a volte i “cottanellesi”, così come si definivano gli abitanti dei paesi.

I territori, per lo più rivestiti da boschi cedui di leccio, con ampie zone di frassino, cerro, carpine, ornello, ontano e più su, faggio, rappresentavano riserve naturali per i colombacci dove sfamarsi e riposare dalle fatiche delle migrazioni.

Gli stanziali erano meno di oggi; non c’erano le colture moderne del girasole e del favino, leccornie che davano ai migranti lo stimolo a fermarsi per la riproduzione. Dopo la seconda guerra mondiale, i boschi secolari vennero dati al taglio obbligando le punte in transito a proseguire.

Ancor oggi, ad ottobre, Francesco si reca a colombacci nel capanno di un caro amico dove si continua a sparare rigorosamente a fermo.

Si guarda sempre fisso, lontano. Il volantino ha avvistato qualcosa.

Si attende.

È l’inizio di ottobre, è ancora presto, il passo non è cominciato.

Poi giunge il dieci, ma sono giorni ventosi di fastidioso scirocco.

Si arriva al quindici, al venti, qualcosa si muove, ma siamo in ritardo.

E così termina ottobre, qualche giorno discreto, si spera nel prossimo anno.




Francesco Bonomo



 

Tratto da

Universale e Cappine, paro e paro - Storie di caccia povera storie di caccia nobile... e di un museo, (Trento, Stampa Effe e Erre, Dicembre 2011).


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