In Toscana la fauna sta scoppiando di salute. Torme di cinghiali, frotte di caprioli, branchi di cervi, orde di lupi scorrazzano di qua e di là dai monti al mare nello sconforto di decine di migliaia di agricoltori esasperati. Questo è quanto si legge sui giornali e quanto le principali associazioni agricole denunciano con appelli, conferenze, comunicati. Il problema c'è, inutile negarlo. E chi dalla terra, dai campi, dai boschi trae il suo sostentamento deve avere tutta la nostra solidarietà.
A maggior ragione adesso, che spinto dall'emergenza, comincia a riconoscerne le cause reali. Si sta facendo strada infatti, anche fra larghi strati del mondo agricolo, quantomeno toscano, che le ragioni di questa emergenza fanno capo – udite udite - alla politica protezionistica imperante. Si sono accorti – e per qualcuno è come un fulmine a ciel sereno - che non esistono piani di gestione che possano funzionare, se non si rivede alla radice la politica dei parchi. Sono questi, i parchi, le oasi, le aree protette,infatti, i serbatoi inesauribili dove queste ormai ricche popolazioni di ungulati vanno a rifugiarsi, perchè hanno capito che là nessuno li può toccare. O quasi.
L'altra sera, a Pistoia, in un'affollata e rumorosa assemblea promossa dalla Cia (Confederazione Italiana degli Agricoltori), si sono mossi anche i boscaioli. Non ce la fanno più a sopportare le scorrerie dei cervi e dei caprioli, che devastano orti e campi, brucano le giovani piante di castagno, di cerro, di faggio, ne impediscono una regolare crescita, danneggiano l'intera economia della gente della montagna che già fa fatica a tenere vivi i vecchi borghi e a campare decorosamente continuando o recuperando attività che troppo in fretta sono state archiviate come residuali.
E non ce l'hanno, stranamente, con i cacciatori. Anzi, li considerano amici. Anzi, molti di loro sono boscaioli e cacciatori. Come molti di loro sono gli unici che da quelle parti animano il volontariato, si impegnano per tenere lontani da quei territori i rischi del dissesto idrogeologico, curano i borghi, fanno in modo che i casolari non diventino ruderi.
Ce l'hanno invece con regole forestali assurde, con una gestione della montagna in mano alla burocrazia piuttosto che al buon senso, una gestione occhiuta e vessatoria, dicono loro, che si accanisce con gli inermi. Ce l'hanno con chi amministra il demanio e i parchi. Ce l'hanno con l'andazzo ambientalista, con una filosofia sempre più animalista, che ignora il sudore, la fatica, l'impegno per la collettività, l'amore per il bosco, che invece è dedizione assoluta, che non prevede orari, cartellini da marcare, ferie, week-end. Gente semplice, schietta, che a volte si trova spaesata nei meandri di leggi e regolamenti i più disparati. Non riesce a districarsi fra gli intorcinamenti sovrapposti dei diversi livelli di competenza: Regione, Provincia, Comune, Comunità Montana, Genio Civile, Protezione Civile, Corpo Forestale, Demanio, Autorità di Bacino, ATC, Ispra, tecnici e funzionari di diversa tendenza e opinione. Fatto sta che cervi e caprioli sono troppi. In montagna, ma anche alla periferia della città, provocano danni ingenti. Più dei cinghiali, che grazie ai cacciatori sono tenuti sotto controllo. I censimenti non sono veritieri. Gli indici di prelievo, dettati dall'Ispra ma condizionati soprattutto da un ambientalismo di maniera (ricordate il vecchio caro Bamby?), sono bassi e mai raggiunti. In sostanza, si chiede di incrementare i piani di abbattimento (superando anche certe ritrosie di cacciatori di selezione) per limitare al massimo – ma al massimo – i danni alle colture e al bosco.
Anni fa, un vecchio ma mitico documentario di Bruno Modugno dimostrava senza ombra di dubbio che “Per troppo amore” si faceva del male alla natura. Nello specifico alla fauna selvatica e in particolare ai camosci e agli stambecchi del Gran Paradiso. Nel nostro più importante Parco Nazionale avevano adottato la nuova filosofia “ambientalista”, che contemplava il divieto assoluto di caccia, o di prelievo, che poi è la stessa cosa. E questi splendidi animali, dopo pochi anni di cura WWF versione Pratesi, non più gestiti utilizzando il fucile (e usufruendo del portafoglio di appassionati che amavano collezionarne il trofeo) si ammalavano di cheratocongiuntivite e, diventando ciechi, morivano precipitando dagli irti pinnacoli di roccia per sfracellarsi in fondo ai canaloni. Un ecatombe, figlia di una sciagurata avversione ai cacciatori. Che, come ha detto anche il nuovo ministro dell'Ambiente, sono persone per bene, e che - aggiungiamo noi - conoscono meglio di chiunque altro in Italia i ritmi della natura e i modi per come trattarla affinchè sia una natura “amica”, un patrimonio, una risorsa, a cui attingere con saggezza.
Purtroppo, da allora, il nuovo pensiero ha fatto piazza pulita di tutte le saggezze millenarie, ha sbaragliato una cultura contadina che per secoli ha conservato un patrimonio unico al mondo, utilizzando con criterio una risorsa a portata di tutti.
Da quasi vent'anni, la legge sui parchi, che suggellò questi divieti su tutta la linea, non ha fatto altro che dare campo libero a una cultura ambientalista di matrice sempre più metropolitana, asservendo tutto a scellerate logiche protezioniste, che alla luce dei fatti stanno dimostrando di non avere avuto niente di tecnico né di razionale. Ad oggi, non sono bastate le reiterate denunce dei cacciatori e di tanta gente che vive in campagna, consapevole che il territorio e il patrimonio naturale, per proteggerli, vanno curati come si cura una pianta di basilico, le cui foglie alla fine finiscono per dare gusto agli spaghetti. Se lasci tutto a se stesso, il bosco, il melo, il pero, l'olivo, piano piano degenerano e vanno in malora. L'ambiente “naturale”, che da noi non esiste più da migliaia di anni, riprende il sopravvento e quello che noi dovremmo chiamare “paesaggio”, curato amorevolmente dall'uomo, ritorna “wilderness”. Cioè selvaggio.
In attesa che il vento cambi e che la politica e la società si rendano conto di quanti errori sono stati commessi, confidiamo anche nella ruvida ma pratica saggezza dei boscaioli. Intanto, stiamo cominciando a capire che quello che denunciava Modugno non era amore. No. Non era amore. Era qualcos'altro. Dategli voi un nome.
Vito Rubini