La storia degli ultimi decenni, che ha visto lo strapotere dei mezzi di comunicazione di massa esercitarsi con successo nella sistematica manipolazione delle coscienze, sembra aver prodotto la convinzione del predominio assoluto di ciò che è sovrastrutturale.
Detto in poche e semplici parole: non conta tanto ciò che è vero ma ciò che si riesce a far credere o pensare alla maggioranza dei cittadini, sia che lo si faccia assecondandone le pulsioni più istintive e irrazionali oppure cercando di far prevalere le proprie buone e giuste ragioni. Di tale fenomeno una delle prime vittime è stata la caccia: incapace di esprimere una cultura che non sia marginale e subalterna, ha subito gli assalti e le menzogne mediatiche degli anticaccia, capillarmente diffuse ad ogni livello, grazie a giornalisti compiacenti, a spot pubblicitari accattivanti e ad eserciti di maestrine cresciute alla scuola delle aberrazioni culturali disneyane. Il potere politico non ha, evidentemente, alcun interesse a contrapporsi frontalmente all’afflato animalistico che permea la società civile, soprattutto nelle sue componenti urbane. Al di là delle promesse elettorali, non metterà mai scopertamente a rischio il consenso trasversale garantito da seguaci ed estimatori di Martini, Brambilla e Prestigiacomo per favorire uno sparuto manipolo di soggetti dediti ad una attività considerata anacronistica.
Oggi il mondo della caccia tenta di passare al contrattacco, usando, con una logica che resta di natura difensiva, le stesse armi degli avversari. Si ingaggiano giornalisti, si costituiscono comitati, si fondano partiti politici, si cerca di fare da levatrici ad un ambientalismo più maturo. In sostanza si parte per la guerra limitandoci pur sempre al livello della sovrastruttura, cercando solo di ristabilire la verità, di farla conoscere, dimostrando ai cittadini che non siamo poi così brutti come veniamo dipinti. Si, è vero, è utile restituire il diritto di cittadinanza attraverso tutte le strade possibili a coloro i quali la natura la vivono direttamente e quotidianamente, senza il filtro deformante di una visione culturale sviluppatasi nelle grandi città. Tutto questo può portare qualche positivo risultato, ma non sarà mai purtroppo sufficiente a garantire un futuro all’attività venatoria.
Il film “Avatar”, da molti liquidato come l’ennesimo tentativo di sublimare il complesso di colpa dell’ ”uomo bianco” nei confronti di tutti i “nativi” della terra e dei pellerossa d’America in particolare, ha rievocato uno dei drammi già troppe volte vissuti dall’umanità: lo scontro tra le civiltà seminomadi dei popoli cacciatori e quelle prettamente stanziali dei popoli agricoltori e allevatori. La storia ha sempre dato ragione alle seconde, in grado di produrre risorse in misura maggiore e costante e quindi di liberare energie per elaborare cultura e tecnologia. Tuttavia mentre i popoli cacciatori sono sempre stati ben coscienti di dipendere dalle risorse animali cacciate e di essere loro stessi parte di un equilibrio naturale da preservare, i popoli agricoltori e le civiltà industrializzate da essi sviluppatesi hanno perduto il senso di quel legame ed hanno considerato la natura un bene da sfruttare e modificare a proprio uso e consumo, in una logica di mero profitto, spesso al di là di ogni limite logico. Il massacro dei bisonti d’America, lasciati a marcire al sole della prateria, è avvenuto non tanto per il guadagno derivante dalla vendita delle pelli, quanto perché distruggendo i bisonti si distruggevano anche le tribù dei pellerossa che di essi vivevano, acquisendo a loro spese nuovi pascoli, terre fertili e zone minerarie. Anche i civili Romani hanno sottomesso le tribù di cacciatori Celti e la storia si è ripetuta ovunque si siano scontrate organizzate civiltà di agricoltori con selvaggi popoli di cacciatori. E così la caccia, da mezzo indispensabile di sussistenza che trovava nella necessità di preservare le risorse disponibili il proprio principio regolatore, è progressivamente divenuta da un lato occasionale mezzo di sopravvivenza per le classi meno abbienti, dall’altro si è trasformata in gioco di abilità propedeutico alla disciplina delle armi, in svago cortigiano per nobili e signori e, in ultimo, nella attività di “sporting” per gentiluomini, così come è stata concepita negli ultimi due secoli soprattutto nel mondo anglosassone.
Oggi solo il popolo Inuit e pochi altri vivono ancora di caccia. L’uccisione di animali come “sport”, come “game”, come prova di coraggio o di abilità non ha più senso per il comune sentire e viene respinta, fortunatamente, anche dai cacciatori più maturi. Solo dove l’attività venatoria rappresenta una fonte di reddito per governi, proprietari o concessionari di territori di caccia e operatori del settore turistico, grazie alla vendita della carne e al turismo venatorio, allora e soprattutto allora la caccia acquista considerazione sociale e nessuno si azzarda a chiederne l’abolizione. In molte parti del mondo, in Africa e in Asia soprattutto, la caccia è diventata una garanzia di conservazione delle specie selvatiche, grazie al reddito che produce. Se così non fosse la fame e l’ignoranza determinerebbero lo sterminio di innumerevoli animali e la semplice repressione del bracconaggio non sarebbe certo sufficiente a salvarli.
Tuttavia questo ruolo positivo della caccia stenta ad affermarsi e ad essere universalmente riconosciuto, soprattutto nei paesi occidentali.
Il confronto tra la caccia e la pesca è in qualche modo illuminante per comprenderne almeno una delle motivazioni. La pesca rappresenta ancora oggi fonte essenziale di nutrimento per milioni di esseri umani è non è stata ancora validamente sostituita dall’allevamento. Il pesce si trova quotidianamente sui banchi di ogni mercato, al contrario delle carni selvatiche che ne sembrano ormai quasi scomparse.
Dunque in Italia, come altrove, l’orientamento dell’opinione pubblica nei confronti della pesca è assai più positivo e tollerante che nei confronti della caccia, laddove è invece la pesca l’attività meno regolamentata e potenzialmente maggiormente dannosa per l’ecosistema. Dobbiamo concluderne che spesso ciò che è buono per il palato lo è anche per la coscienza: tuttavia se è difficile rinverdire i fasti della “polenta e osei”, lo sarebbe assai meno oggi far arrivare buona carne selvatica sulle tavole delle famiglie.
In particolare poi in Italia problemi specifici si aggiungono a quelli che l’attività venatoria affronta nel resto del mondo: qui da noi troviamo schierati uno contro l’altro un mondo venatorio che si ostina caparbiamente a combattere battaglie di retroguardia, confinato nel proprio “particolare” fatto di tessere, sportine di carne per tutti e strenua difesa di “cacce tradizionali” e un mondo ambientalista salottiero e immaturo che ha buon gioco nel costringere costantemente all’angolo l’avversario più comodo e facile da demonizzare. Ne consegue che ci troviamo di fronte ad un circolo vizioso: un mondo venatorio arcaico, funzionale al mantenimento e alla riproduzione di un ambientalismo immaturo, il quale a sua volta ostacola la crescita culturale dei cacciatori, rendendo impossibile un fecondo confronto. Tutto questo si colloca in un contesto le cui regole sono determinate dall’art. 842 del codice civile e dalla Legge 157/92. Il primo permette ai cacciatori l’ingresso nei fondi privati. Si tratta di una peculiarità giuridica pressoché unica in Europa introdotta nel periodo fascista, fondata sul presupposto che la caccia rappresenti un interesse generale. La Legge 157/92 ha tentato, con la costituzione degli ATC, dei cui comitati di gestione fanno parte agricoltori, ambientalisti e cacciatori, di ricomporre interessi eccessivamente sbilanciati (almeno sul piano formale) a favore dei cacciatori, ponendo al contempo un argine alla strategia della parchificazione selvaggia, intrapresa in Italia dagli ambientalisti allo scopo principale di contrastare l’attività venatoria. Ad oggi mi sembra che si siano ottenuti solo risultati parziali e limitati a ben precise aree felici della penisola. Se buona parte dei cacciatori continua a lamentarsi, se buona parte degli ambientalisti continua a cercare di abolire la caccia, se buona parte degli agricoltori, non potendo ricavare profitti dagli animali o dai cacciatori che ospitano, invoca stragi indiscriminate o approfitta della situazione per cercare di mungere denaro pubblico a fronte di danni spesso millantati, vorrà pur dire che qualcosa non funziona come dovrebbe.
La gestione privatistica della caccia generalmente praticata nel resto d’Europa, mitigata con i più vari espedienti normativi che consentono comunque a tutti i cacciatori non proprietari di cacciare, produce quasi naturalmente una valorizzazione economica del’attività venatoria ed una remunerazione della proprietà. Inoltre chi esercita il diritto di caccia è direttamente responsabile per i danni arrecati alle colture agricole dalla selvaggina oggetto di prelievo.
L’Italia è invece probabilmente l’unico paese europeo nel quale si è costretti a fare piani straordinari di contenimento degli ungulati e non si riesce a controllare specie eccessivamente prolifiche e dannose, come ad esempio lo storno, contraddicendo ai principi di una corretta gestione. Solo noi possiamo essere capaci di sperperare un patrimonio che tutti ci invidiano, senza neppur lontanamente riuscire a comprendere che esso rappresenta un’occasione storica per la trasformazione della caccia.
Come dunque ottenere un riconoscimento sociale del valore della caccia, che sia il più possibile condiviso? Occorre far sì che la caccia non sia più espressione di una cultura subalterna e minoritaria, ma si conquisti uno spazio ed un ruolo positivo generalmente riconosciuti all’interno di quella scala di valori che fa parte del patrimonio culturale dominante in Italia ed in Europa in questo preciso momento storico. La caccia, indipendentemente dalle motivazioni dei singoli, non può più essere considerata e vissuta come “sport”, come divertimento fine a sé stesso, ma deve imporsi agli occhi dei più come utile e indispensabile attività di gestione e conservazione di ambienti, specie selvatiche e equilibrio tra questi e le attività umane. Deve consentire una giusta remunerazione di agricoltori e proprietari fondiari. Deve produrre buona carne selvatica per i ristoranti, per i banchi delle macellerie e, perché no, per quelli delle Coop e dei supermercati cittadini. Deve essere in prima fila nelle battaglie e nell’azione quotidiana a tutela degli ambienti. Deve, infine, promuovere espressioni artistiche come la pittura, la musica, la scultura, la narrativa e intervenire in prima persona nel mondo della scuola, divulgando il patrimonio di conoscenze e tradizioni di cui siamo portatori e promuovendo un approccio non ideologico al problema ambientale.
Da che parte cominciare? Certamente non sarebbe opportuno rivedere il fondamentale impianto giuridico su cui si fonda l’attività venatoria in Italia, andando a modificare l’art. 842 del c.c. con tutto quel che ne potrebbe conseguire. Sarebbe sufficiente prevedere il ristorno alle associazioni di proprietari e agricoltori di una quota delle tasse governative e regionali e delle quote versate a vario titolo dai cacciatori agli ATC, oltre che di parte degli eventuali proventi derivanti dalla commercializzazione legale delle carni selvatiche e dalla vendita di diritti di prelievo ai non residenti, per compensare i danni subiti dagli agricoltori e remunerare i proprietari fondiari per l’ospitalità concessaci.
La diffusione e la crescita demografica di cervi, caprioli, daini, cinghiali, camosci, stambecchi e mufloni sta avvicinando inesorabilmente l’Italia al resto d’Europa, modificando gradualmente anche il modo di essere cacciatori degli italiani. Approfittando di ciò la caccia può essere rifondata in termini sostanziali, garantendo così anche il perpetuarsi di tutte le altre forme di caccia che rispondano ai necessari presupposti di un prelievo conservativo. Non possiamo permetterci di essere miopi e non comprendere la rivoluzione prodotta dagli zoccoli dei milioni di animali che calpestano campi e boschi abbandonati dall’uomo. Questi rappresentano l’occasione per chi lo voglia di iniziare a praticare una caccia che può essere liquidata come “non caccia” solo dalla superficiale ignoranza di chi non la conosce. Sarebbe delittuoso oltre che stupido non approfittare della medesima occasione per stimolare nei cacciatori il desiderio di apprendere nuove tecniche venatorie e di conoscere i presupposti scientifici che vi sottendono. Uccidere un capriolo di rapina con una fucilata a pallini o comunque in un contesto non previsto da norme e regolamenti non è un delitto in sé, perché al mondo c’è sicuramente di peggio. Lo è in quanto il cacciatore compie con quel gesto, al solo scopo di far dispetto a qualcuno o più semplicemente per impossessarsi di un pezzo di carne, una triplice sciocchezza: rinuncia alla possibilità di una crescita personale determinata dalla frequenza di specifici corsi di abilitazione; rinuncia all’occasione di fare la propria parte perché la Caccia in generale acquisti dignità e riconoscimento sociale; condanna infine il capriolo alla perdita di ogni dignità in quanto preda di un’azione venatoria compiuta in modo etico e lo riduce ad un semplice cadavere sanguinolento da far scomparire prima possibile.
Allo stesso modo sarebbe però delittuoso, per combattere la “crisi delle vocazioni”, sanare eventuali comportamenti illegittimi rendendo più facili i corsi di abilitazione e dando a tutti una fascetta e un “capriolo politico”.
Come sempre la verità sta nel mezzo: a politici e responsabili delle associazioni venatorie il compito di far avvicinare quanti più cacciatori possibile alla caccia di selezione, anche attraverso la reintroduzione del capriolo in aree della penisola che un tempo lo ospitavano. Tuttavia questo dovrà accadere senza rinunciare a seri corsi di formazione, a seri esami finali e a seri controlli (che già in buona parte ci sono) dell’operato dei cacciatori abilitati.
Claudio Nuti