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mercoledì 23 aprile 2014
    

La mia prima volta? In realtà sono state tre.

Ero un discolo di circa undici anni che svolgeva diligentemente le sue mansioni istituzionali di rompi scatole nei confronti di un padre fin troppo disponibile, che faceva di tutto per placare le smanie adolescenziali, acconsentendo a soddisfare tutte le miei richieste, ed in particolare quelle che avevano per oggetto la pesca e la caccia.

Per la prima era stato sufficiente regalarmi una cannetta di bamboo in tre pezzi ad incastro, di quelle che si trovavano facilmente nei grandi magazzini e che duravano lo spazio di un’estate, fornendomi settimanalmente di una razione di vermi, contenuti in una busta di carta di quelle a strisce blu e rosse che venivano utilizzate normalmente per il caffè macinato, ma che i negozi di pesca trovavano ideali per contenere il vermacciolo.

Ma per la seconda richiesta, trovare la soluzione era più difficile, per una questione di età e perché mio padre non era cacciatore. Iniziò con il regalarmi fionde di varie fogge e, a Natale, un Mondial a gommini ai quali, per renderli più efficaci, infilavo sulla punta uno spillo da cucito, con il doppio risultato di sbilanciarli e ridurne la traiettoria. Ma ero felice così.

Poi un giorno mio padre ebbe la malaugurata idea di presentarmi ad un suo collaboratore, Remo Profili, cacciatore appassionato che viveva in un paesino in provincia di Viterbo. Ai miei occhi di bambino appariva come un gigante buono, depositario di una cultura venatoria infinita. Un cacciatore vero, bello come un eroe, insomma come sarei voluto essere io. Remo che a pensarci bene somigliava ad un famoso attore italiano degli anni cinquanta, Franco Fabrizi, mi sopportava di buon grado e non solo perché ero il figlio del capo.

Un giorno convinsi mio padre ad andarlo a trovare e, guarda caso, in periodo di caccia. Trascorremmo la giornata nella sua piccola proprietà e quando le ombre si allungarono sul giardino, fendendo la luce rossa del tramonto, Remo guardandomi negli occhi con il suo sorrisino beffardo mi chiese: “Ragazzo, vogliamo tentare un paio di tiri?” Si allontanò in direzione della stanza da letto e quando tornò aveva tra le mani un Franchi AL 48, con il castello lucidato a specchio e un po’ di cartucce. Gli feci strada senza togliere gli occhi dall’oggetto del mio desiderio e quando fummo finalmente in giardino mi consegnò l’arma ed io, senza farmi pregare, scaricai le cartucce contenute nel serbatoio su tutto quello che aveva avuto la sventura di volarmi sulla testa senza, ovviamente, fare vittime. Il reato è caduto in prescrizione.

La seconda, prima volta, fu nell’autunno del 1976. Abitavo in un quartiere della periferia romana, capolinea dell’unico autobus e del viaggio a ritroso dei dipendenti statali che tornavano dal lavoro quotidiano. Oltre, per la maggior dei suoi abitanti, era il nulla ma per me, al contrario, era tutto il mio mondo fatto di marane, colline e grotte, la mia riserva personale di caccia. Ero in attesa di ricevere il porto d’armi dopo aver superato gli esami che il fucile, un semi automatico Beretta 301 regalo di mio padre, friggeva nelle mani. Lo avevo smontato e rimontato decine di volte, avevo sparato a salve a tutto ciò che si muoveva e no, caricato e scaricato canna e serbatoio, con le cartucce artigianali che avevo comprato in una piccola armeria vicino casa. Le ricordo ancora, erano tutte gialle e contenute per file ordinate, nella grande scatola di quando erano state vuoti bossoli di cartone.

Un pomeriggio, noioso più degli altri, saltai il fosso della ragione e della prudenza. Smontai il Beretta e lo infilai in una custodia artigianale che mi ero costruito per trasportare le canne da pesca. In pratica la gamba di un vecchio jeans cucita alla base e stretta da un laccio alla vita, alla quale avevo applicato una striscia della stessa stoffa che mi permetteva di trasportarla a tracolla.

Travestito da pescatore raggiunsi con la moto la struttura di quello che noi ragazzi romanticamente chiamavamo il vecchio mulino, ma che nella realtà doveva essere un pozzo tracimato al quale, tanto tempo prima, erano state asservite delle pompe di captazione protette dalla struttura muraria, ormai ridotta ad un rudere.

Montai il fucile e nell’arco di un paio d’ore consumai l’intera scatola di cartucce su ogni tipo di volatile, realizzando un più che misero carniere.

Dal balcone di casa, il Maresciallo Pezzini, mio maestro di caccia, aveva ascoltato la scomposta sparatoria collegando la cosa al sottoscritto. Quando tornai mi beccai una ramanzina, di quelle che non si dimenticano. Arrivò persino a minacciarmi che non avrebbe onorato il suo impegno di accompagnarmi a caccia se avessi fatto ancora sciocchezze di quel genere.

Dopo un paio di mesi, per mio fortuna, non mantenne la ferale minaccia ed io affrontai con lui quella che vorrei definire la terza, prima volta.

Non avevo chiuso occhio tutta la notte, l’emozione mi tormentava rendendo più lunghe le ore che mi separavano dall’appuntamento con il Maresciallo.

Eravamo a febbraio, e le possibilità di caccia si erano assottigliate. Il mio mentore aveva deciso che la mia prima giornata di caccia si sarebbe svolta lungo le rive del Tevere, nella zona di Tor di Valle, tra il ponte della Magliana e quello del raccordo anulare, che avremmo raggiunto comodamente a piedi da casa.

Una caccia semplice, da pezzettari. Dovevamo percorrere le rive affacciandoci di tanto in tanto sul fiume, attraversando i fitti roveti che lo costeggiavano, sperando così di sorprendere le gallinelle d’acqua e le folaghe che le frequentavano, senza risparmiare gli eventuali tordi che anticipavano il ripasso e altri pennuti di contorno, che avrebbero avuto la sventura di capitarci a tiro.

Come si usava allora, gli argini erano stati arati per essere coltivati ed il fango si attaccava agli stivali aumentandone in modo spropositato il peso. Io stringevo i denti e continuavo. Ogni tanto il saggio Pezzini voltandosi mi chiedeva se ero stanco, ma io un po’ per la passione e un po’ perché non volevo cedere al cospetto di un signore che aveva cinquant’anni e cinquanta chili più di me continuavo stoicamente a camminare.

Non ricordo quale fu il risultato di quella prima battuta legale, ma certamente non dimenticherò mai il giorno dopo, che mi vide trascinarmi nei corridoi dell’ufficio, reso invalido dai crampi che mi inchiodavano le gambe, gonfie di acido lattico. Da allora ho imparato ad ascoltare i consigli dei vecchi cacciatori. 
 

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