Tutti sanno che nella psiche dell'uomo evoluto coesistono istinto e ragione ma sulla natura dell'istinto e sul rapporto tra la parte "evoluta" del cervello e quella emotiva le opinioni divergono.
La paleoantropologia, la neurofisiologia e l'etologia concordano nel ritenere che nella psiche umana, accanto alla ragione, sopravvive un residuo di natura "animale" (cioè l'istinto) che conserva tuttora i caratteri originari del primitivo cacciatore-predatore, con tutte le sue implicazioni. Il conflitto tra pulsioni istintive e ragionamento essendo connaturato antropologicamente alla natura umana, continua a spiegare il suo influsso sulla vita individuale e sociale.
Esistono tuttavia alcune correnti di pensiero che per motivi etici o religiosi non accettano che nell'istinto dell'uomo sia presente una componente "animale" perché vagheggiano l'utopia di un mondo in cui tutti sono in pace con tutti, ignorando che proprio lo stato di natura è una lotta di tutti contro tutti perché ogni specie per sopravvivere danneggia necessariamente altre specie.
Per capire l'origine e la funzione dell'istinto che è un complesso di azioni e reazioni automatiche, (comune a tutti gli esseri viventi) formatesi per selezione dei più adatti in funzione di sopravvivenza, (cioè il patrimonio genetico di una specie) esso va storicizzato, cioè bisogna risalire alla preistoria quando la vita di tutti i predatori era difficilissima e precaria.
Secondo la paleoantropologia l'ominide per milioni di anni e fino alla scoperta di armi in grado di compensare la sua deficiente dotazione anatomica (l'uomo fisicamente è il più debole dei predatori), ha dovuto condividere con tutti gli altri predatori, ambiente, modi di vivere, di sopravvivere e di cacciare. Perciò l'ominide è stato a lungo un anello della catena alimentare in quanto predatore ma anche preda di animali più forti di lui.
Allora il tasso di mortalità era altissimo a causa della fame, delle malattie, della perenne lotta con i rivali e con le fiere e in tali condizioni estreme solo gli individui più sani, più forti, più aggressivi e opportunisti, più dotati per la caccia e per la competizione avevano qualche possibilità di raggiungere l'età riproduttiva per trasmettere i propri geni ai discendenti.
Il lunghissimo e strettissimo rapporto di convivenza nelle stesse condizioni tra ominide e predatori in aggiunta ad alcune affinità biologiche (secondo i neurofisiologi la struttura base cerebrale di tutti i vertebrati predatori incluso l'uomo è uguale) spiega perché l'istinto ancestrale predatorio dell'ominide cacciatore sia molto simile a quello di tutti gli altri predatori, con il corredo di socialità, gregarietà, territorialità, volontà di prevalere, ostilità verso i diversi, opportunismo e questo repertorio in parte è tuttora ancora presente nella psiche dell'uomo evoluto perché le modificazioni dell'istinto sono lentissime.
Quanto al rapporto tra la parte evoluta del cervello e quella "animale" va ricordato che l'uomo (unico in natura) è dotato di una sua esclusiva linea evolutiva (lo sviluppo intellettivo), grazie alla quale si deve il successo biologico della specie umana, che ha "costretto" la natura a produrre ciò di cui ha bisogno, ha inventato il fuoco, l'agricoltura, la domesticazione del bestiame, le idee, gli ideali, i valori, le filosofie, l'arte, la scienza, il commercio, le leggi e l'organizzazione statale acquisendo senza limiti esperienze, conoscenze, coscienza di sè e capacità di programmare il futuro.
Fino all'avvento dell'agricoltura che ha affrancato l'uomo dall'incubo della fame e dal nomadismo, ogni momento, ogni risorsa, ogni energia, ogni tempo dell'ominide sono state assorbite dalla ricerca del cibo attraverso la caccia, mentre solo dopo avendo acquisito più tempo libero l'uomo, ha potuto liberamente pensare, creare, inventare in una progressione illimitata.
Anticipando le conclusioni, le scienze sociologiche e antropologiche attestano che l'istinto "animale" originario è tuttora in parte presente nella psiche dell'uomo evoluto, con i caratteri violenti del predatore, e che solo con l'evoluzione e il progresso la parte razionale dell'uomo ha cercato di evitare che la violenza endogena del predatore esplodesse in forme distruttive canalizzandola a tal fine in moduli pacifici e costruttivi, accettati da tutti.
Sotto questo aspetto le leggi, le pubbliche istituzioni, l'apparato giudiziario, il diritto pubblico, i sindacati, le regole della meritocrazia, gli esami i concorsi, sono "invenzioni" della civiltà finalizzati a disciplinare con regole l'ancestrale tendenza a prevalere con violenza. Di ciò si può trovare riscontro in molti comportamenti umani nei quali emerge la primitiva violenza.
Ad esempio nei casi in cui certi soggetti sono travolti in modo incontenibile dalla pressione, dallo stress, dalla paura, dall'ira, dalla gelosia, dall'etnia e dalla religione, ciò può infrangere le barriere dei loro freni inibitori, ed allora la violenza insensata primitiva torna ad esplodere (guerre, pulizie etniche, genocidi, terrorismo, omicidi, eccessi del tifo sportivo, ecc).
Inoltre molte le attività ludiche o sportive, che pure comportano impegno di tempo, di energie e di denaro, non sono praticate per conseguire beni o servizi concreti, ma solo perché inducono nei praticanti una profonda e appagante sensazione di benessere psico-fisico (comunemente definita "divertimento") che è riconducibile all'istinto in quanto analoga a ciò che si prova quando si soddisfa uno degli istinti naturali fondamentali (fame, sete, sesso, riposo, volontà di prevalere).
L'istinto che è funzionale alla sopravvivenza sfrutta il meccanismo piacere-dolore, per rafforzare rendere più pronta e sicura solo la reazione genetica comportamentale funzionale alla autoconservazione rinforzandola con il piacere che ne consegue, mentre un blocco inibitorio (dolore-paura) dissuade da quella incongrua o rischiosa.
Tutte le pratiche ludiche o sportive hanno poi per effetto un incremento della fisicità (forza, resistenza, coordinazione, controllo del corpo, prontezza di riflessi, destrezza) e un incremento dell'agonismo (canale di sfogo della violenza) qualità tutte che nel tempo erano necessarie al cacciatore primitivo per avere successo e che oggi (quando la sussistenza non dipende dalla caccia ma dal lavoro) non sono più necessarie, ma che l'istinto non ha dimenticato e continua a stimolare.
E' persino superfluo ricordare che tutti gli sport olimpici (lanci, corse, prove di forza e di resistenza ecc) sono una rievocazione dell'abilità e della destrezza indispensabili al cacciatore primitivo per cacciare e per usare con efficacia gli strumenti rudimentali allora in suo possesso.
Se poi riflettiamo sugli sport più praticati (calcio, basket, pallavolo, golf ecc) essi si basano tutti sul controllo delle traiettorie della palla e viene spontaneo ipotizzare che i suoi rimbalzi irregolari, e guizzanti facciano scattare in quella zona del cervello umano nella quale permane l'istinto venatorio, la reazione del cacciatore di fronte alla preda che fugge, e cioè un'evocazione remota ma inequivoca della caccia alla selvaggina.
Quando si parla di caccia non si può dimenticare che per milioni di anni l'ominide è vissuto cacciando e mangiando e perciò la caccia per un lunghissimo tempo non è stata una parte della vita ma è stata la vita stessa, perché ogni momento, ogni energia, ogni risorsa era totalmente assorbita dalle necessità alimentari.
La caccia ha favorito la socialità perché l'unione delle forze favorisce la caccia e la difesa; ha imposto un assetto gerarchico alla vita di gruppo perché esige unità di comando e regole per evitare conflitti sulla ripartizione del cibo e la scelta delle donne; ha dato impulso alla comunicazione, poi evoluta in linguaggio articolato; ha indotto alla migrazione quando il territorio di caccia si impoverisce; ha avuto un ruolo culturale perché la caccia richiede un complesso di cognizioni sull'ambiente, sugli animali e le loro abitudini, sulle tecniche di caccia da adeguare al variare delle condizioni; ha promosso l'avvento della società patriarcale nella quale i vecchi vengono alimentati anche quando non sono più in grado di cacciare perché la loro esperienza e il loro sapere sono indispensabili ai giovani.
Il cacciatore guerriero è la figura dominante della società primitiva perché è il più bravo nel procurare il cibo, nella caccia e nella difesa, trasmette i suoi geni ai discendenti, sovrintende all'organizzazione interna, e a riti sociali e religiosi.
In sostanza nessun altra attività umana è paragonabile al ruolo che la caccia ha svolto nella storia dell'umanità e perciò è naturale che la mentalità e l'istinto del cacciatore essendo antropologicamente connaturati alla natura umana siano tutt'ora in grado di svolgere un ruolo evocativo riconoscibile in molte attività umane.
Per avere una dimensione realistica della pratica venatoria, va ricordato che la caccia oggi è consentita in tutti i paesi del mondo (con la sola eccezione della Costarica per motivi interni) e che solo in Europa (senza la Russia per cui mancano i dati) i cacciatori sono più di 10.000.000; e negli USA sono 17.000.000 (mancano i dati per il Sudamerica, l'Asia, l'Africa, l'Australia, la Cina e il Canada) e secondo stime approssimative il numero totale di cacciatori nel mondo è tra i 250 e 300 milioni.
Oggi la caccia vagante con il cane (la forma più diffusa in Italia) è in un forte declino sopratutto perché la selvaggina naturale cacciabile è estinta da oltre mezzo secolo ormai, in parte sostituita da animali di allevamento (di scarso valore venatorio).
Per questo motivo le licenze di caccia sono in costante diminuzione, non c'è ricambio generazionale e ormai molti praticanti sono divenuti più cinofili che cacciatori.
Ciò non ostante una minoranza organizzata di anticaccia da anni cerca di ottenere la sua abolizione sulla base di pretestuosi argomenti recepiti acriticamente da quelli degli animalisti ecologisti.
Per avere un esatto profilo degli anticaccia va chiarito che essi sono concentrati sopratutto nei grandi centri urbani, non sanno nulla della natura e delle sue leggi, non sono mai andati in campagna, non hanno la minima nozione sulla prassi venatoria e la loro immotivata avversione è espressione solo di un becero integralismo che vuole vietare tutto ciò che non piace, sul presupposto che la democrazia consista nella dittatura della maggioranza, mentre la civiltà di un paese si misura proprio dalla tutela delle minoranze .
Gli anticaccia ritengono che gli slogan degli animalisti siano "argomenti forti" e sostengono che la caccia: a) causa una strage indiscriminata di uccelli; b) mette in pericolo la biodiversità; c) che la maggioranza degli italiani è contraria alla caccia; d) che il cacciatore trae diletto dall'uccisione di animali e ciò è ripugnante.
L'affermazione (infondata) sulla strage di uccelli si fonda solo sul numero delle cartucce vendute ogni anno, ma trascura che il 99% di esse non è usato in caccia ma per il tiro sportivo (skeet, trap, percorso di caccia, elica, ecc)
Quanto al timore che cacciare sia un pericolo per la biodiversità esso nasce dall'ignorare che la selvaggina naturale cacciabile è estinta in Italia da oltre mezzo secolo, non a causa della caccia ma a causa dell'antropizzazione del territorio e della chimica usata dall'agricoltura intensiva; ed è per questo che sono estinte o in via di estinzione non solo molte specie di uccelli mai oggetto di caccia (rondini, passeracci, cardellini, usignoli ecc) ma anche molte specie di insetti (rospi, lucertole, formiche, cicale, coleotteri, grilli, farfalle, dorifore ecc) che non hanno nulla a che vedere con la caccia.
Sostenere che la caccia debba essere abolita perché la maggioranza degli italiani è contraria ad essa rappresenta un autogol, perchè proprio i referendum promossi dagli anticaccia e regolarmente andati deserti dimostrano invece che la grande maggioranza degli italiani è indifferente rispetto alla pratica venatoria.
In tema è' quasi superfluo ricordare che l'art. 2 della Costituzione garantisce "i diritti inviolabili" e che l'art. 3 tutela "il pieno sviluppo della persona umana" e perciò la scelta di come impiegare il proprio tempo libero è un diritto individuale di libertà, che ha il suo limite solo nella lesione del diritto altrui.
Se così non fosse si provi ad immaginare cosa accadrebbe se i diritti delle minoranze etniche, religiose, linguistiche, sociali, sessuali, dipendessero dal consenso della maggioranza.
Sostenere poi che il piacere dei cacciatori consiste nel dare la morte agli animali rappresenta un malizioso espediente propagandistico solo apparentemente persuasivo ma in sè falso e deviante.
Infatti quando un'attività complessa si articola in una serie di comportamenti intrinsecamente coordinati e dagli anelli indissolubili di questa catena si estrapola uno solo di essi giudicato avulso dal suo contesto e si estende giudizio su di esso all'intera attività di cui esso è solo parte si compie una disinformazione vergognosa.
La sociologia comportamentale ha chiarito che la dimensione valoriale di ogni singolo atto deve essere rapportata al contesto generale di cui fa parte, perché solo così si può valutare la condizione psicologica dell'agente, ed è questa che rende indifferente o ripugnante il fatto preso in esame.
Dunque è la condizione psicologica dell'agente a dequalificare la materialità dell'atto, e perciò il giudizio su una cuoca che torce il collo ad un galletto è di indifferenza (perchè essa sta preparando il pranzo), mentre se lo stesso atto è compiuto da qualcuno solo per l'efferato godimento di uccidere un essere vivente esso è ripugnante.
Così il soldato che in guerra spara al nemico, priva un uomo della vita, ma non è un omicida: in lui è manca la coscienza e volontà di uccidere un uomo perché nella prassi bellica il nemico è solo un pericolo da eliminare e quindi lo sparo avviene in condizione di indifferenza psicologica rispetto alle sue conseguenze, perchè ciò è coerente con il contesto bellico.
Il cacciatore non va a caccia solo per uccidere (il 99% delle battute si risolve in un nulla di fatto) ma va a caccia per "cacciare" (quale che ne sia il risultato) perché è mosso dall'istinto venatorio dell'antico predatore da cui discende ed è la prassi venatoria che si articola in una complessa sequenza di atti tra loro inscindibilmente connessi al punto che ciascuno di essi da solo perde la sua usuale connotazione naturale essendo solo un anello privo di autonomia della catena di cui fa parte, e perciò lo sparo che (in casi ormai rari) segue all'incontro del cacciatore con la selvaggina non è sorretto dalla volontà di uccidere ma dalla prassi venatoria.
I singoli atti materiali nei quali si articola la prassi venatoria sono compiuti per effetto di un automatismo consuetudinario che innesca nell'animo del cacciatore quella partecipazione emotiva che è l'essenza della caccia, e tutta questa attività materiale è metabolizzata in una dimensione rituale nella quale i simboli sostituiscono la realtà e perciò i profani che giudicano la caccia solo dal suo assetto visibile non riescono a capirne l'essenza.
Per il cacciatore la caccia è un archetipo dell'essenza della vita, una metafora liturgica del ciclo naturale (vita-morte, predatori - preda) che è legge di natura.
Il cacciatore lontano dalla città e dalle strade, nel silenzio della campagna si immedesima nella condizione del suo antenato predatore, torna a misurare il tempo non con l'orologio ma sulle ore di luce e la distanza non in km ma sulla forza delle gambe.
Le istanze della fame, della sete, del caldo e del freddo, della stanchezza riacquistano la realtà di urgenze fisiologiche e non più di semplici abitudini.
Infine la caccia vagante non può prescindere dalla collaborazione con il cane da caccia e questo rapporto strettissimo non è solo strumentale (individuare i selvatici nascosti nella vegetazione con l'olfatto) ma è in una collaborazione paritetica di due partner: il cacciatore sceglie il terreno da esplorare, e il cane svolge il suo lavoro in piena autonomia pur restando sintonizzato con i desideri del padrone che il cane percepisce attraverso il linguaggio del corpo e così essi costituiscono un "insieme venatorio" nel quale il cane è un imprescindibile compagno di vita e di lavoro.
In conclusione la prassi venatoria trova la sua legittimazione nell'istinto e nella lunghissima tradizione antropologicamente metabolizzata che è entrata a far parte del costume e dei diritti di libertà e la psicologia moderna ha trovato in questo istinto fondamentale dell'uomo una miniera di simboli e schemi che sono tessere del mosaico della psiche umana.
Enrico Fenoaltea