"Del doman non v'è certezza..." scriveva il Magnifico in ben altri e gioiosi contesti. Lo so, tutti noi, in questa tragica vicenda che tutto spaura, vorremmo sapere che fine farà la caccia domani, appena da zona rossa o arancione si passerà, ce lo auguriamo, a zona gialla, in attesa di cure efficaci o vaccini che ci, ripeto"ci", preannunciano mierabolanti. I cani fremono, il profumo della cartuccia sparata nell'aria ovattata di brume ci manca, ci mancano i frulli della misteriosa beccona e dei più misteriosi ancora becchipiatti. Tutto ci manca, ma lo riavremo. Forse presto, se nei governi, locali e nazionali, si ristabilirà la ragione.
Di sicuro, però, lo dicono tutti ormai, nel medio e nel lungo periodo non sarà più come prima. Lasciamo perdere le questioni politiche, quelle sociali e culturali. Anche se volendo pensare a quel che più ci sta a cuore, oltre la salute e al benessere di tutti noi, la questione della caccia non è avulsa dalla questione generale.
La caccia, dunque. Come per il resto, è legata allo sviluppo dell'economia, della società, della gestione del territorio. Siamo indissolubilmente legati all'Europa. Non solo per i tanti soldi che potremmo avere a disposizione, ma perchè nello sgomitare mondiale, almeno a mio parere, da soli saremmo poca cosa. Già, purtroppo, anche in Europa, si avvertono scricchiolii su quello che era il cosiddetto green new deal: c'è il rischio che prevalga di nuovo l'interesse delle grandi multinazionali dell'industria agroalimentare, piuttosto che la linea che sosteneva la produzione di cibo sano e giusto. Il farm to fork, dalla fattoria alla tavola, che poteva prevedere anche una rivalorizzazione del "prodotto selvaggina", si sta immiserendo via via che passa da un livello all'altro del percorso previsto per l'approvazione della nuova politica agricola comunitaria, la PAC. Vedremo dove verranno collocate quelle ingenti risorse che in teoria erano previste per contrastare la crisi ambientale, la perdita dei suoli, l'inquinamento delle acque dell'aria e dei terreni agricoli. L'innovazione tecnologica (lieviti miracolosi al posto di antiparassitari, per esempio) sembra che possa aprire a grandi innovazioni green anche in agricoltura. A prescindere. Staremo a vedere.
Quello che però ha messo in luce questa crisi pandemica sono i valori culturali e sociali che ci portiamo dietro dalla seconda metà del novecento. Il vecchio conflitto fra città e campagna. Cultura metropolitana verso cultura rurale. La prima, purtroppo, responsabile del fenomeno subliminale che ha portato le nostre giovani generazioni, fin dall'infanzia, a credere che i polli nascessero arrosti e senza penne. Con tutte le implicazioni negative nel sentire comune anche nei confronti della caccia, un attività - la nostra - che pur soggetta all'avanzamento tecnologico più "naturale" non si può.
Per questo, proprio in questi giorni, anche sulla stampa nazionale è un fiorire di interventi su come sarà la nuova società, e quindi cosa ne sarà delle nostre comunità in rapporto all'evoluzione delle città, sempre più smart, come si dice, ma al riparo da focolai di pandemie, se possibile, incrementando il lavoro "da remoto", con conseguente rivoluzione nei consumi e nei comportamenti. E, quindi, come si produrrà il cibo, come si combatteranno le follie del clima, cosa servirà per ridurre e possibilmente azzerare gli elementi inquinanti.
L'aureo equilibrio fra città e campagna, anche nell'era del web, ce lo ricorda come sempre quella sublime rappresentazione del Lorenzetti nella Sala del Buongoverno a Siena. Che, non a caso, descrive una campagna umanizzata, caccia inclusa. Protagonista. Sia nel corteo di aristocratici falconieri "metropolitani", sia nei più villici uccellatori e caanettieri.
Interessante, in contrapposizione a un Renzo Piano, archistar delle edificazioni urbane, che tuttavia riconosce che le città così come sono oggi strutturate hanno bisogno di sostanziali e rivoluzionarii interventi ("ai ciechi serviva il covid per capire che la concentrazione urbana era già da un pezzo infognata nella saturazione e ripetizione delle idee", leggo in altro scritto), interessante - dicevo - una nota di Michele Serra (Robinson, 21 novembre scorso). L'umorista, ormai opinionista di vaglia, che anni fa scelse da metropolitano di vivere in campagna, in Appennino, e si scontrò con realtà a lui sconosciute, cacciatori compresi, con i quali ebbe non pochi contrasti; fino a che - cercando con intelligenza di approfondire - non capì che l'intruso era lui, non i cacciatori, e da allora ritrovò quell'equilibrio necessario per collegare le due culture. Un nuovo senso di comunità e un diverso approccio con la naturalità. Indispensabile a mio parere anche per le nuove "politiche" della caccia 4.0.
Cosa dice Serra? "La natura ci salverà, se noi la salveremo", dice. In campagna, per il post-covid, "non c'è rischio di movida, non esiste folla, lo shopping non chiama all'adunata generale. Il distanziamento non è una scelta virtuosa, è un dato di fatto." Anche se non è foriera di sensazioni idilliache, la campagna. Lui, Serra, che ci vive e lavora da remoto per la città, lo sa. "In certe sere d'inverno la solitudine è brutale. I cani, fortunati loro, si parlano nella notte, grazie all'antichissimo web dell'abbaio. Da qualche anno interferisce l'ululato dei lupi, sempre meno raro". E per l'umanità inurbata "non sarà facile recuperarne l'uso e, direi, la comprensione". Perchè la campagna è diventata "il rimosso per eccellenza: è ciò che siamo (natura) e non sappiamo più di essere. Una specie di inconscio a cielo aperto, ben visibile eppure inascoltato - se non quando l'ululato del lupo ravviva, come in sogno, memorie di libertà sconfinata e di fuga affannata, memorie di caccia e di tana".
Chi è tornato a vivere in campagna, oggi, secondo Serra, è gente diversa, dispone di una cultura diversa e una prassi ancora più diversa, ci vive per ricreazione, svago, vacanza. Insomma, "nessuno pensa alla ordinaria necessità di tenere puliti i campi, pervi i fossi, trasportare la legna fuori dal bosco". Fare il campagnolo vero, viverla veramente, la campagna - anche da cacciatore, è implicito, aggiungerei io personalmente - vuol dire "ricongiungersi al ventre del mondo".
"Con il covid che ti spinge alle spalle - conclude dunque Serra, ipotizzando una sintesi positiva in virtù della tremenda rivoluzione tecnologica - incominci guardare a quel vasto esterno che si apre dopo i raccordi anulari come un luogo abitabile anche al di fuori del tempo canonico del weekend".
E dunque, tornare ai "paesi tuoi", col pensiero e con l'azione. Chissà se una visione del genere potrà aiutare queste masse metropolitane impaurite a reinterpretare e finalmente capire anche il ruolo e il valore della caccia. Pensando positivo, se fossi un dirigente venatorio, un capopolo, un politico sensibile e responsabile, nel bene e nel male, un pensierino ce lo farei...
Vito Rubini
Nota: Poi c'è anche lo scettico, che di fronte alla solitudine estraurbana - dove ti devi reinventare un approccio con la natura, non quello degli ecologisti-animalisti di maniera, fracassamaroni ormai anche per il più paziente di questa terra - ipotizza l'aumento di ataviche paure e di conseguenza un incremento dei sistemi di aggregazione. Nella nuova, agghiacciante megalopoli, ovviamente. Mah! Staremo a vedere.