Anche Manhattan è natura


lunedì 6 gennaio 2020
    

 
Sarebbe come scoprire l'acqua calda, pensare che chi scrive sia stato improvvisamente colto da un raptus di follia. Non è così. E' una consapevolezza che ho da tempo. Posso anche dire: Per fortuna! Del resto, tutti noi, "gestori" dei risultati di un processo evolutivo ricco di aggiustamenti alle pulsioni istintive, sviluppatosi nel corso di milioni di anni, un po' di sana (o insana) follia ce la siamo sempre portata dietro. Ovviamente, la conseguente consapevolezza è frutto delle riflessioni, empiriche, filosofiche, scientifiche degli ultimi dieci-trentamila anni.

Arrivate fino a noi soprattutto grazie all'invenzione della scrittura. In tutto questo tempo, prima e soprattutto dopo la "scoperta" dell'agricoltura, fino ad oggi, anche la nostra specie - mi arrischio a dire - è natura, confermando la consapevolezza di quel certo grado di follia che occupa il mio DNA, ma anche il vostro, credo. Con la differenza che - come sintetizza bene Lovari  - col perfezionamento delle tecniche agricole si è dato il via a una crescita senpre più ingombrante per le altre specie, vegetali e animali, che occupano questa nostra palletta azzurra.  Che ogni anno che passa si dimostra sempre più inadeguata a sostenere i propri famelici abitanti. Quindi, volendo ricapitolare,  anche noi siamo natura, in tutte le sue espressioni. Da quando stavamo nelle caverne, a oggi che viviamo nei grattacieli di Manhattan. Una specie, la nostra, che è stata capace di organizzarsi, come le formiche, per esempio, che - a detta di alcuni - dominano il mondo, le api e, sù sù, le meraviglie di molte società sottomarine. E mi fermo qui: il nostro modello di formicaio, il nostro alveare è appunto Manhattan. Dove, dicono, eogisticamente  ci stiamo mangiando l'uovo prima che esca dalla gallina.

Fatti salvi i moniti storici o preistorici, gli allarmi più recenti risalgono a un paio di secoli fa, quando Henry David Thoreau (Walden, ovvero vita nei boschi) provò inascoltato a dimostrare che si può ancora vivere come i nostri antenati, facendo da modello al più pragmatico Aldo Leopold (A Sand County Almanac), fino alla vera e propria "bibbia" dell'ecologia data alle stampe da Eugene P. Odum (Principi di ecologia), il quale introduce, appunto,  i principi della dinamica delle popolazioni, delle comunità, degli ecosistemi. Peraltro codificati dal modello preda-predatore tratto dall'equazione di Lotka e Volterra: il predatore prospera fino a che c'è abbondanza di prede; cala fino a volte ad estinguersi se la quantità delle prede non è più sufficiente al suo sostentamento (e qui verrebbe in mente il fenomeno cinghiale, abbinato al fenomeno lupo, tanto per intendersi).
 
In natura, e la nostra evoluzione tecnologica come sappiamo tutti incide pesantemente sui fenomeni naturali, questa interdipendenza fra predatore e preda è altamente complessa. Tanto che nell'ultimo mezzo secolo si sono moltiplicati i segnali di una crisi radicale del nostro rapporto col resto di ciò che - come noi - fa parte degli ecosistemi del pianeta. Il richiamo a uno sviluppo sostenibile, evocato dalle nostre parti dal profetico Enzo Tiezzi (Tempi storici, tempi biologici, 1987), che aveva intuito l'intreccio  tra economia sostenibile ed evoluzione sociale, tra etica e politica ambientale, per i nostri contemporanei sembra aria fresca.

Si assiste, oggi, quasi imbambolati al proseguimento di modelli di sviluppo che puntano più alla massimizzazione della fitness individuale, egoistica, piuttosto che a una presa di consapevolezza della necessità di un radicale cambio di passo, soprattutto quando - in Italia più che altrove, sembra - si insiste nel sostenere una filosofia animalista, ignorando ben altri gravi disequilibri nei nostri territori.

Per esempio, la pervicace demonizzazione della caccia e dei cacciatori - eccoci al dunque -  per distogliere l'attenzione dai reali problemi dell'ambiente, degradato da un inquinamento delle falde acquifere, da modelli produttivi obsoleti, da un'agricoltura industrializzata, dal peccaminoso abbandono delle nostre aree alto-collinari e montane, è un sintomo che dovrebbe invitare a riflettere, prima di tutto noi cacciatori, per trasmettere questa consapevolezza ai nostri vicini di casa, che della caccia non sanno niente, e che nell'era dei social le bevono tutte, anche le baggianate più assurde.

Un singolo bracconiere,  sempre da condannare, ovviamente, fa notizia rispetto all'attività corretta, onesta dei cacciatori, meritoria anche per l'ambiente e il patrimonio naturale, mille volte più importante.


Leandro Verrini


1 commenti finora...

Re:Anche Manhattan è natura

MATTI SIAMO MATTI RESTIAMO. I BRACCONIERI VERI SONO QUELLI CHE CI STANNO RUBANDO IL FUTURO. E QUANDO NON SONO NEL MALAFFARE SONO STATI INVIATI A ROMA. O A NEW YORK

da VIVA LA CACCIA 07/01/2020 8.36