Ambientalismo: scienza o compassione? lunedì 30 dicembre 2019 | | Che un pool di biologi, tra cui anche gli italiani Piero Genovesi e Luigi Boitani, abbia dovuto occuparsi, di nuovo, della cosiddetta Conservazione compassionevole, pubblicando ora un nuovo studio scientifico (Consequences Matter: Compassion in Conservation Means Caring for Individuals, Populations and Species) che spiega come il “dovere di preservare la biodiversità” sia più importante della vita di singoli animali, dunque per esempio delle sorti di nutrie e cinghiali in disequilibrio, la dice lunga sulla deriva dell'ambientalismo scientifico dei giorni nostri.
La conservazione compassionevole, di cui avevamo già parlato qui, è un filone in voga tra diversi biologi e faunisti particolarmente suscettibili (leggi animalisti) che sostiene come sia ingiustificabile qualsiasi atto soppressivo in virtù di un fine più grande di conservazione. Il movimento sostiene che non si può trascurare il benessere degli animali coinvolti da piani di sfoltimento e che nessuna uccisione per conservazione può di per sé essere giustificata. Dunque no all'uccisione di singoli animali nell'interesse della protezione di una popolazione o una specie, come avviene nella caccia di selezione e no anche alla soppressione di predatori problematici quando costituiscono un pericolo pubblico o un danno economico. Dimostrarsi tolleranti con i lupi, perfino di fronte alle stragi di pecore e animali domestici, paradossalmente è l'idea degli ambientalisti compassionevoli, in totale empatia solo con il predatore, pare.
Nello studio di Boitani e altri si cita l'etica di gestione, che riconosce il dovere di preservare la biodiversità, sancita da numerosi accordi di conservazione nazionali e internazionali. Quello che sorprende è che sia stato necessario ribadirlo. Eminenti scienziati hanno dovuto sacrificare ore di ricerca per ribattere a colleghi ideologizzati, che contestano le basi della materia per cui si sono laureati. “Spostando troppo l'equilibrio a favore dell'individuo sul collettivo – dicono gli studiosi - si rischia di inibire la nostra capacità di conservare la biodiversità e in un momento in cui la necessità di agire non è mai stata così grande”.
Il danno derivante dall'inazione – si legge in un passaggio - potrebbe non essere limitato agli effetti sull'ambiente. Hampton ha esplorato le implicazioni del prelievo su popolazioni sovrabbondanti di erbivori selvatici usando una metodologia esplicitamente consequenzialista. E' stato dimostrato un effetto positivo sul benessere dei singoli individui (ovviamente quelli non abbattuti) rispetto al non agire. Il mancato abbattimento di cavalli selvaggi in Australia, ad esempio, ha ridotto alla fame migliaia di singoli cavalli (oltre ad aver provocato danni ambientali). L'avvelenamento da parte del rospo della canna invasivo ( Rhinella marina ) porta alla morte di molti predatori in oltre 50 paesi in tutto il mondo, ma gli ambientalisti compassionevoli si oppongono all'uso di nuovi metodi per il loro controllo o eradicazione. Nei conflitti uomo-animale, la mancata eliminazione degli animali problematici può avere conseguenze letali sia per gli altri animali che per le persone.
Di fronte alle singole vite animali si staglia, ingombrante come un macigno, il dovere di preservare le specie per le future generazioni. Queste generazioni future, guardando indietro alla continua perdita di biodiversità, infatti, - si legge nell'articolo - potrebbero non essere d'accordo sul fatto che sopportare "le ferite del mondo" sia stata una reazione appropriata alle sfide della conservazione del 21°secolo.
E la deriva verso l'imbarbarimento continua, sempre più nascosta dal politicamente corretto. Anche nel mondo della scienza.
Cinzia Funcis
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