Giorni fa, mentre strimpellavo su facebook in cerca di qualche stimolo che mi fornisse nuove ragioni per sperare nella caccia e nei cacciatori, ho cliccato sul sito del CIC, International Council for Game and Wildlife Coservation. L'organizzazione mondiale della caccia che raccoglie una sessantina di paesi con una quarantina di rappresentanze governative, e partners come l'UNESCO, la FAO, la IUCN, la FACE, la CBD (Convention on Biological Diversity), il CITES, l'UNEP (United Nations Environment Programme),l'OIE (The World Organisation for Animal Health), l'AEWA (Agreement on the Conservation of African-Eurasian Migratory Waterbirds). Il gota della caccia collegato alle più autorevoli organizzazioni conservazioniste, a livello planetario, dagli USA alla Cina, tanto per dire, che incrocia tutta l'Europa, gran parte dell'Africa, delle Americhe, del Sudest asiatico, fino all'Oceania. Un melange di culture, non solo venatorie, che danno un'idea del radicamento di questa attività nelle società umane. Ho letto cose interessanti, in parte lontane dalle nostre modeste esperienze, ma in ogni caso molto educative. Interessante, soprattutto, a mio parere, anche se ovvia, l'importanza che questi signori, spesso uomini di stato e di potere (il CIC ha avuto presidenti come il fratello dello Scià di Persia, il Conte Enrico Marone Cinzano) danno all'opinione dei giovani cacciatori, tanto da costituire un apposito board cosmopolita che si riunisce periodicamente e riflette insieme sulla natura e sulle cose del mondo. Per garantire, soprattutto, un futuro per la biodiversità del nostro continente. Come riconoscere, implicitamente, che saranno i giovani a fornire la soluzione al problema che oggi attanaglia le moderne società. Un'anticipazione, strutturata, di quel fenomeno, di quella consapevolezza, che proprio in questi giorni interessa le nostre metropoli invase da centinaia di migliai di giovanissimi dimostranti.
Perchè, ha sostenuto di recente Karmenu Vella, Commissario europeo all'ambiente, anche le comunità dei cacciatori hanno bisogno di una sana biodiversità. E quando la biodiversità è sana, è spesso perché le comunità nel loro insieme si sono riunite per mantenerne l'equilibrio. Nella convinzione che la caccia possa essere una forza positiva per la conservazione, a condizione che sia svolta in modo responsabile e sostenibile. Lo stesso manifesto elaborato e sottoscritto dai componenti del CIC a tutela della biodiversità offre un'eccellente panoramica di come le azioni mirate dei cacciatori contribuiscono agli obiettivi della strategia dell'UE sulla biodiversità. È dimostrato che i cacciatori sono sempre più coinvolti nella gestione e nella conservazione degli habitat. E hanno un compito molto importante nell'assicurare che le politiche dell'UE siano effettivamente messe in pratica.
Un occhio di riguardo alle giovani leve è di sicuro una politica lungimirante per quei paesi che la sostengono. In Olanda, per esempio, circa il 50% delle persone che ottengono il permesso di cacciatori sono giovani. Per promuovere la caccia fra le giovani generazioni, in quel paese hanno adottato programmi di formazione in collegamento con cacciatori più anziani ed esperti.
Una potente opportunità, per esempio, è stata riconosciuta da questo board anche alle nuove teconologie, per costruire reti di giovani cacciatori. In Danimarca già funziona un programma di questo genere. Utile per promuovere campagne di comunicazione atte a far capire alle società metropolitane l'importanza della caccia per la sostenibilità sociale. Come del resto la promozione della carne di selvaggina è stata riconosciuta come importante elemento per sviluppare coesione sociale fra cacciatori e non cacciatori. E di questo abbiamo buone esperienze anche da noi, seppur ancora frammentate e scollegate fra loro.
Ma la chiave di volta di un progetto integrato per la diffusione dell'interesse per la caccia da parte delle giovani generazioni, i giovani del board del CIC lo riservano alla promozione delle conoscenze "venatorie" a favore della conservazione dell'ambiente. Buone pratiche, insomma, che senza tanti fronzoli ma con competenza e dedizione si integrano spesso non sussidiariamente alle carenze di conoscenza e d'impegno del mondo ambientalista ufficiale, che - lo stiamo verificando ogni giorno di più - è a supporto di un modello di sviluppo che fa danno all'ambiente naturale, invece che portarne beneficio.
E il board dei giovani del CIC riflette su un portale (Perdix-Portal) che svolge una lodevole attività in UK, per promuovere la falconeria ma nello stesso tempo informare su ciò che serve per mantenere integro il territorio adatto ai falconi, che stanno al vertice della catena ecologica. Insieme alla selvaggina che serve a farlo spravvivere in natura. Le starne, per esempio.
La perdita di biodiversità, come sappiamo, è spesso dovuta a cambiamenti nell'uso del suolo. Ciò è particolarmente vero per la starna (Perdix perdix) le cui popolazioni sono state influenzate negativamente dall'aumento della agricoltura intensiva. Insieme, i falconieri britannici e la Game and Wildlife Conservation Trust stanno collaborando per ripristinare l'ambiente adatto alla starna, dando vita a un nuovo approccio alla conservazione. Un progetto, che nel proteggere il patrimonio naturale, dà valore alla reputazione di coloro che lo fanno conoscere in tutta Europa e aiuta i falconieri. Ma non solo loro, perchè prevede una multidisciplinarietà diffusa a livello continentale, che partendo dalla starna, oggi in grave crisi ovunque, proprio a causa dei cambiamenti degli ambienti rurali, ha l'ambizione di interessare le diverse specie di fauna selvatica, soprattutto le più significative per la caccia, e i territori che almeno un tempo le vedevano abbondanti.
L'aumento vertiginoso della popolazione umana che si attesta sempre di più in ambiti metropolitani - dicono questi baldi giovani del CIC - allontana le persone dalle fonti del cibo che mangiano, che conoscono la fauna selvatica per lo più tramite la televisione o Internet. In buona sostanza non si rendono conto, i nostri concittadini metropolitani, dell'impoverimento degli habitat dovuto alla perdita di biodiversità, che loro stessi provocano con la richiesta sempre più pressante di prodotti dell'agricoltura intensiva, che altera gli ecosistemi naturali e impoverisce il patrimonio di fauna selvatica. Le aree protette inventate per conservare la biodiversità, paradossalmente ne consentono il suo rapido impoverimento.
Non tutto è perduto, dicono, anzi, ne sono convinti. Siamo ancora in tempo a ricostituire i terreni adatti alla fauna selvatica. L'esperienza che stanno maturando sulla starna, un tempo comune ovunque in Europa, costituisce un fiore all'occhiello che può servire a sollecitare la collaborazione con altri "utenti" degli ambienti naturali, attraverso pratiche di sostenibilità.
Io credo che bisognerebbe dar loro una mano.
Antonio Craveri