Riprendiamoci la natura lunedì 11 marzo 2019 | | La FAO ha lanciato l'allarme in questi giorni: la biodiversità alimentare, ovvero l'insieme di tutte le specie animali, i vegetali che forniscono cibo, mangimi, carburante e fibre, e tutti i microrganismi che forniscono i cosiddetti servizi ecosistemici, si sta riducendo ad un ritmo impressionante. Bisogna tenere bene a mente una cosa prima di tutte: si tratta di un processo irreversibile e quello che perdiamo oggi non può essere recuperato. Tanto dovrebbe bastare a farci dare una svegliata. Quando si parla di biodiversità si intende quel tutt'uno di specie viventi interdipendenti (insetti, pipistrelli, uccelli, piante, lombrichi, funghi e batteri, per esempio) che, esistendo, mantengono i terreni fertili, impollinano le piante, purificano l'acqua e l'aria, mantengono gli alberi sani, e permettono di combattere i parassiti e le malattie. L'Abc della vita. Anche della nostra.
Il primo rapporto della FAO sul tema, che ha preso in esame i dati di 91 Paesi del mondo, ci dice che di questo passo il Pianeta non sarà più in grado di sfamarci. Una vera e propria catastrofe planetaria dunque, che obbliga a diverse considerazioni. Anzitutto quella più urgente: l'attuale sistema della produzione agricola non è ecologicamente sostenibile. Se i fertilizzanti e i pesticidi stanno avvelenando i terreni e di conseguenza decretando la scomparsa di innumerevoli specie animali e vegetali, l'agricoltura ha anche il demerito di concentrarsi su un numero estremamente ridotto di specie. Delle circa 6.000 specie di piante coltivate per il cibo, meno di 200 contribuiscono in modo sostanziale alla produzione alimentare globale e solo nove rappresentano il 66% della produzione totale di colture. Con la perdita di varietà e specie si perde anche l'occasione di reagire in caso di attacchi patogeni. Quando una varietà viene colpita, ricordano da Slow Food, l’unico modo per ricostituire la capacità produttiva originaria è cercare, nella diversità genetica di quella specie, una varietà resistente alla malattia con la quale sostituire quella colpita. Purtroppo non si tratta di ipotesi di fantasia. Nel diciannovesimo secolo la patata europea fu attaccata da un fungo che ne decimò la produzione in maniera così estesa da causare in due anni un milione di morti per fame nella sola Irlanda e costringendo un altro milione di persone a emigrare in America. In quel caso bastò trovare specie resistenti cercando nella grande varietà disponibile nelle Ande sudamericane. Delle oltre ottomila varietà di patate che allora erano presenti, oggi ne sopravvivono meno di mille, ed è questo il grande allarme della FAO. “Le varietà tradizionali e antiche – scrive Carlin Petrini, il patron di Slow Food su Repubblica –, così come molta della biodiversità alimentare selvatica, vengono abbandonate e si perdono a favore di cibi standardizzati che non hanno alcun radicamento sui territori”.
E se uno come Petrini ne approfitta giustamente per fare leva sulla sua battaglia a tutela di grani antichi e produzioni locali di pregio schiacciate dai grossi latifondisti e dall'industrializzazione imperante del cibo, perché il mondo della caccia, nel suo piccolino, non dovrebbe rivendicare a grande voce il proprio ruolo a difesa della biodiversità alimentare selvatica, quale è la selvaggina? E al contempo di un modo più naturale ed eco sostenibile di vivere la vita?
Non lo dice forse l'Europa che i cacciatori, (forse unica categoria sociale compatta e perennemente presente sul territorio), sono tra i primi e i più solerti tutori della biodiversità? Questo impegno, sistematicamente negato dai detrattori della caccia, in realtà non è certo difficile da comprendere. Essendo interessati a mantenere e a sviluppare quei delicati equilibri naturali che garantiscono gli habitat ideali per le specie cacciabili, migliaia e migliaia di cacciatori si danno un gran da fare spontaneamente e anche a stagione chiusa. Come dei bravi giardinieri, che però nessuno stipendia, puliscono i boschi, mantengono sane zone umide altrimenti abbandonate, rendendole ambienti ideali per la sosta dei migratori, piantano, siepi si occupano della fauna quando è in difficoltà. Il tutto documentato e alla luce del sole. Possono dimostrare cotanto impegno fattivo, coloro che vedono nella caccia il male assoluto, ma che poi non fanno altro che stare dietro le loro scrivanie a raccogliere fondi per questa o quell'associazione sedicente ambientalista? Certamente no.
Sarà forse una goccia nel mare ma è pur qualcosa. Tanto più che se andiamo a vedere tra le cause di questo impoverimento devastante di biodiversità, anche nella lista della FAO, al solito troviamo la cattiva gestione dei suoli e delle acque; la deforestazione, l'inquinamento agricolo e i cambiamenti climatici dovuti agli effetti serra. Bene fa la Francia dunque a ridurre le tasse di caccia chiamando alla vita all'aria aperta le nuove generazioni di cacciatori. Essere cacciatori in fondo vuol dire anche responsabilizzarsi, comprendere il proprio ruolo nella natura. Passare dalla play-station al bosco, significa cambiare mentalità e fare un passo indietro, pensare con la propria testa e voltare le spalle finalmente a chi ci vuole solo indifferenti consumatori.
La caccia in questo senso potrebbe tornare di moda. E questa novità potrebbe davvero essere parte di quel nuovo vento che sta soffiando tra le giovani generazioni, che, sorprendentemente e sempre più numerosi, manifestano ogni venerdì da settimane nelle piazze di mezza Europa per chiedere nuove politiche ambientali. E' venuto il momento di tirare il freno d'emergenza prima di imboccare il tunnel del non ritorno. Questo modello industriale, fatto di plastica, di consumi usa e getta, di selezioni di varietà di sementi, di piante, di alimenti, di sprechi e di nessun rispetto per la natura, deve avere le ore contate, altrimenti saremo noi a pagarne il conto.
Cinzia Funcis
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