Secondo la mia opinione la vera natura del cane da caccia è ancora poco conosciuta perchè il giudizio comune è inquinato dalla lente deviante dell'antropomorfismo, e perchè la scienza, dopo i fondamentali esperimenti di Pavlov, ha trascurato il cane.
Solo da pochi decenni l'etologia ha iniziato ad interessarsi del cane e, sulla scia degli studi sul lupo, ha evidenziato che gli attuali modi di comportarsi del cane e il suo eclettismo verso i compiti più disparati sono il frutto sinergico degli istinti ancestrali del predatore da cui deriva, e della plasticità del suo apparato neuronale.
Quest'ultimo, oltre ad essere sensibile alla pressione selettiva (che può esaltare ciò che è funzionale all'esercizio venatorio) gode di una sinaptogenesi che nel periodo "sensibile" del cucciolo (l'età che va dagli 8/10 mesi ai 24/30) si sviluppa sotto gli stimoli dell'ambiente faunistico di iniziazione, autodeterminando strutture e funzioni deputate alla formazione di un apparato cognitivo adatto a gestire e risolvere i problemi e le difficoltà che incontra.
Si deve a questa speciale attitudine (pressochè unica nel mondo animale) se il cane in modo autonomo e sulla base della sua esperienza riesce a costruirsi la tecnica venatoria adeguandola di tempo in tempo al variare delle situazioni.
Inoltre il perfetto adattamento alla convivenza con l'uomo secondo i neurofisiologi dipende dal fatto che la struttura base cerebrale dei vertebrati mammiferi predatori è fisiologicamente uguale in tutte le specie (l'uomo incluso) determinando moduli di comportamento simili.
Applicando la chiave di lettura suggerita dai metodi degli etologi, le attitudini del cane da ferma trovano una collocazione secondo me più aderente alla realtà, se se ne ricerca il rapporto con gli istinti del predatore territoriale, da cui deriva, il quale vivendo e cacciando in branco ha sviluppato senso sociale, istinto gregario e senso di cooperazione.
La territorialità lega il cane alla dimora del padrone e agli ambiti che quest'ultimo frequenta.
La socialità lo integra nella convivenza con gli uomini di cui ricerca la compagnia a preferenza dei consimili.
Il senso della gerarchia gli fa accettare la subordinazione al padrone, di cui accetta la dominanza (capo branco), e al quale obbedisce con fedeltà.
In natura il predatore è pigro perchè attento al risparmio energetico e perciò caccia solo se è spinto dalla fame, mentre nel cane da caccia la bramosia di cercare è stata svincolata dall'appetito, divenendo un comportamento genetico.
La ferma del cane da caccia può ricordare un comportamento naturale, cioè la pausa di concentrazione che spesso i predatori fanno prima dell'assalto finale alla preda.
La pressione selettiva ha reso la ferma un blocco inibitorio paralizzante, innescato dall'emanazione olfattiva del selvatico vicino, che scatena nel cane una sensazione appagante, analoga (ma sostitutiva) del piacere del mangiare, come rivelano il fremere del tartufo, l'abbondanza della salivazione e i movimenti di masticazione.
Poichè l'attività venatoria del cane ereditata dal predatore, è stata svincolata dall'appetito, si spiega come il cane non consideri cibo la preda, ma la riporti intatta al padrone.
A ben vedere anche in natura c'è un caso in cui il cibo ingerito dal predatore all'esito della caccia, ma non digerito, viene rigurgitato al ritorno nella tana per alimentare i cuccioli ancora inetti.
Infine il consenso è un blocco dei cani che sono rimasti estranei all'azione, per evitare interferenze pregiudizievoli rispetto al cane che ha fermato, e a mio avviso si può collegare alle modalità della caccia di gruppo che prevede per i partecipanti coordinamento e collegamento delle azioni con rigido rispetto dei "ruoli".
La "filata" è finalizzata a giungere, senza rivelare la propria presenza, in prossimità della preda.
La "guidata" ricorda i lentissimi e continui spostamenti che i predatori fanno per non perdere il contatto visivo o olfattivo con la preda.
Concludendo, l'analisi del rapporto tra gli istinti del predatore e l'attività venatoria del cane da ferma sembra evidenziare la sua analogia con la lotta che in natura c'è tra preda e predatore per la sopravvivenza.
In questo ambito, le tecniche difensive della preda e quelle offensive del predatore sono in equilibrio precario retto da criteri adattativi di coevoluzione reciprocamente compatibili, e in questo ambito la capacità del cane da caccia di vanificare ogni difesa dei selvatici con comportamenti adatti dipende dal suo talento venatorio che si può sviluppare al meglio se l'iniziazione è fatta in un ambito faunistico adatto, e se il padrone in questa fase si astiene da pressioni didattiche o addestrative sempre controproducenti.