Campanello dall'allarme per l'incontrollabile crescita di ungulati in tutto il paese. Ma, se Sparta piange, si potrebbe dire, Atene non ride. In effetti, la situazione italiana è ampiamente nella media europea, con una macroscopica eccezione, e, semmai, altri paesi d'Europa evidenziano sofferenze ben più evidenti.
Impietoso il recente report sulla situazione degli ungulati nel vecchio continente di Marco Apollonio (Cirsemaf. Centro Interuniversitario di Ricerca sulla Selvaggina e sui Miglioramenti Ambientali ai fini Faunistici). Con un appunto: gli ungulati, il cinghiale soprattutto, godono di ottima, ottimissima salute ovunque. Anche in Italia non se la passano male, lo sappiamo, ma l'anomalia vera è quella toscana, dove si toccano punte quasi austriache.
Ma andiamo per gradi.
Ventuno sono le specie di ungulati presenti in Europa, undici autoctone (capriolo, cervo, cinghiale, bisonte europeo, renna, alce, camoscio alpino, camoscio dei Pirenei, stambecco, stambecco iberico, capra selvatica) e dieci "esotiche", fra cui il daino e il muflone, per un totale di 19milioni di capi, pari a 815mila tonnellate di biomassa, con 6,6milioni di capi abbattuti all'anno.
In testa alle classifiche europee sta saldamente il capriolo, con quasi dieci milioni di capi, seguito dal cinghiale (quasi quattro milioni), dal cervo (2,5milioni), dal daino e dal camoscio alpino (6-700mila capi ciascuno). Di più bassa consistenza le altre specie.
I tre big, capriolo 54,4%, cinghiale 22,8%, cervo 14,4%, costituiscono il 91% dei contingenti. In termini di biomassa: cervo 31,5%, cinghiale e capriolo 25% circa ciascuno. La distribuzione per paese, vede la Germania in testa con quasi 4milioni di capi, la Francia e la Spagna intorno ai 2,5milioni circa, e a scalare, fra 1,5 e 1milione: Austria, Italia, UK, Svezia, Polonia. Sotto i cinquecentomila capi tutti gli altri paesi fino a quantità poco significative in Portogallo e Grecia.
Quanto alla densità (capi/100ha) si parte dall'Austria, con 14 capi ogni cento ettari, che precede Germania (11), Slovenia (9), Svezia, Ungheria, Cechia, Danimarca, UK e Spagna (5/100ha ciascuna) e Francia e Italia con 4 capi ogni cento ettari.
Italia quindi nella media Europea, ma con una evidentissima anomalia. La Toscana, che segna una densità intorno ai 15 capi ogni 100 ettari. Sicuramente un record.
Questa ricchezza tutta europea si è consolidata quasi totalmente nel dopoguerra. Per il capriolo, in Austria, per esempio, in cinquant'anni si è passati da 50mila a 300mila capi abbattuti all'anno, per il cinghiale da 0 a 35mila, per il cervo da 10mila a 50mila. I contingenti del capriolo in Francia sono decuplicati (abbattimenti annui da 0 a 60mila all'anno). In Ungheria, per il cervo rispetto a ai 20milacapi del 1960 si registrano oggi più di 100mila capi in primavera, con tableau che sono passati da 2mila a oltre 50mila all'anno. In Scandinavia, l'alce ha aumentato la sua consistenza di quattro volte tanto, dal 1970 agli anni duemila. Ragguardevole anche il caso del cervo in Italia, che in trent'anni ha segnato un aumento del 769%, con oltre 70mila capi presenti nel 2010.
A cosa si deve questa ricchezza, in continua crescita?
I cambiamenti anche radicali delle attività umane hanno inciso alla grande, portando a una diminuzione significativa delle popolazioni rurali e a un aumento di quelle metropolitane (ormai, le due comunità sono in equilibrio). A ciò è conseguito l'abbandono dell'allevamento brado di animali domestici, un forte incremento del territorio forestale; infine anche i cambiamenti climatici hanno dato un loro contributo.
A ciò si deve aggiungere anche l'impegno sul fronte faunistico venatorio per la reintroduzione di specie selvatiche (soprattutto cervo, capriolo, cinghiale e camoscio alpino), una naturale espansione di tutte le specie ungulate e l'enorme incremento delle aree protette: dalle poche migliaia di chilometri quadrati che erano nel 1940 ci siamo attestati, in tutta Europa, a oltre un milione e duecentomila Kmq nel 2010.
La caccia, e i cacciatori, sicuramente, hanno fatto la loro parte. Una cultura, la nostra, che affonda le radici nella preistoria e vede consolidarsi le sue regole e i principali indirizzi di comportamento fin dall'epoca greca e romana, su su fino ad oggi. Modellandosi nel tempo, in relazione ai mutamenti politici economici e sociali.
Oggi, gli ungulati oggetto di oculata gestione e di prelievo venatorio sono anche una realtà economica consistente. Si pensi solo al valore dei trofei: un cervo medaglia d'oro ha raggiunto in Serbia il record di 33mila Euro; in Croazia di ben 50mila Euro.
Insieme ai tanti pro (biodiversità, economia della caccia), ci sono anche dei contro. In particolare, incidenti stradali con gravi conseguenze alle persone e danni all'agricoltura, che ammontanto a oltre 80milioni di Euro all'anno (più del 50% in Germania, 25% in Francia, 10% in Italia).
Effetti da non sottovalutare ma che, stante l'irreversibile condizione del territorio in generale (non solo in Europa: analoghe vicende riguardano ad esempio USA e Giappone), potranno essere superati o almeno meglio contenuti se si riuscirà tutti insieme, a livello comunitario, a riformare i principi di gestione della materia, sulla base di logiche che tendano a considerare questo patrimonio non come un problema ma come una risorsa.
Il caso Italia, o per meglio dire il caso Toscana, invita le nostre intelligenze di cacciatori e di cittadini ad adoperarsi per trovare soluzioni che siano paradigma per una gestione più razionale del fenomeno.
Prendendo a riferimento quanto elaborato dal tecnico faunistico Federico Morimando, che auspicando una revisione della cosiddetta Legge Obiettivo (positiva, ma con risultati meno efficaci di quelli che ci si aspettava) suggerisce di meglio utilizzare gli strumenti previsti (caccia, abbattimenti, catture) anche svincolandosi dai paletti del calendario venatorio, e concentrandosi sul contenimento dei danni (gravi soprattutto nelle aree vitivinicole di pregio), snellendo ancora di più le procedure e affidando lo strumento del controllo in gestione diretta degli ATC (enti accertatori e pagatori dei danni), che possano scegliere la forma di intervento più idonea (aspetto, girata, braccata, cerca notturna). Usando la caccia o il prelievo venatorio ordinario come un complemento per ridurre localmente le densità degli ungulati nelle aree non vocate.
Anche perchè, è parere di tutti, ormai, dati tecnici e scientifici alla mano, con le tante e accoglienti aree protette che occupano il territorio regionale (10% più un altro 10% interdetto alla caccia, più le limitazioni in un ulteriore 10-15% di AFV e ATV, e siamo a circa un terzo della superficie agricola) appare molto complicato raggiungere quei 200mila capi abbattuti all'anno che potrebbero riportare in equilibrio il rapporto ungulati/territorio.
Resta, incontrovertibile, un dato: i 96mila capi abbattuti nel 2016 in regione, per l'80% sono il risultato dell'attività di caccia delle squadre di cinghialai, ignorando o contestando l'attività delle quali, sarà difficile incrementare (qualcuno auspica fino al doppio) l'altro 20% tramite la "girata" o con gli interventi di controllo (art. 37). A meno che, come suggerisce qualcuno, nella auspicata riforma degli ATC, ritoccando anche la 157, non si pensi di riportare tutto il territorio (compreso AFV e ATV) sotto la giurisdizione degli Ambiti, eliminado la distinzione fra aree vocate e non vocate.
Una più serrato confronto fra istituzioni, organi di gestione, associazioni venatorie e organizzazioni agricole sarà solo benefico per la soluzione dei problemi. La nullità del contributo delle tradizionali rappresentanze ambientaliste sta a certificare del loro fallimento, avvalorato dalla canea animalista in mano a forze sempre più irrazionali che puntano alla disgregazione del sistema.
Antonio Bertini