L'uomo, fin dalla notte dei tempi, convive con il cane (il primo animale ad essere domesticato) che è uno dei pochi capace di svolgere compiti utilitari assai diversi, in quanto la sua plasticità neuronale lo rende sensibile alla semplice pressione selettiva basata sull'accoppiamento pilotato.
L'attenzione per ogni aspetto della cinofilia venatoria mi ha indotto a pensare che la vera natura del cane domestico sia ancora poco conosciuta.
L'affetto che il cane sa suscitare nel padrone induce quest'ultimo a valutarne il comportamento con la lente deviante dell'antropomorfismo.
Questo porta i padroni a imputare ad intelligenza e sentimenti ciò che invece è dovuto ad opportunismo, capacità di adattamento, istinto sociale e gregarietà (con l'eccezione della eterna fedeltà al padrone che va ricondotta ad una specie di "imprinting").
Dopo le ormai lontane osservazioni di Pavlov, è solo da pochi decenni che gli etologi, sulla scia degli studi sul lupo selvatico, hanno iniziato ad occuparsi in modo sistematico del cane domestico, con risultati che oltre al valore scientifico possono essere molto utili ai cinofili cacciatori.
In sintesi è emersa una nuova chiave di lettura sulla natura del cane, perchè ripercorrendo a ritroso il processo evolutivo e confrontandolo con i caratteri istintivi originari del suo progenitore (un predatore territoriale, che vive e caccia in branco), tutti i caratteri attuali del cane da caccia appaiono sotto una luce diversa.
La territorialità lega naturalmente il cane alla residenza del padrone; l'istinto sociale gli fa ricercare la compagnia degli uomini e quello gregario lo lega al padrone di cui accetta la dominanza (capo branco).
Il predatore in natura appare pigro perchè è attento al risparmio energetico e caccia solo quando è spinto dalla fame mentre nel cane da caccia la bramosia di cacciare è stata svincolata dall'appetito ed è divenuta una costante caratteriale.
La pausa di concentrazione che il predatore fa prima dell'assalto finale alla preda è stato trasformato nella "ferma", un blocco inibitorio paralizzante indotto dall'emanazione olfattiva del selvatico, che innesca nei gallinacei il ricorso alla difesa passiva dell'immobilità.
L'impulso a divorare la preda abbattuta è stato trasformato nel "riporto" al padrone (un fatto che fa pensare al rigurgito che la madre fa della preda ingerita lontano dalla tana, e non digerita, per alimentare i cuccioli).
Anche il "consenso" mi appare come una forma di rispetto per il compagno di coppia che ha trovato la preda, cioè un'eco della cooperazione e della coordinazione necessaria per cacciare in gruppo senza interferire con il soggetto che ha l'iniziativa.
In natura i cuccioli dei predatori imparano dall'osservazione della madre o dai membri esperti del branco la tecnica di caccia ma i cuccioli del cane non sono in grado di fare altrettanto imitando i cani esperti.
La selezione ha in compenso fornito ai cuccioli di cane un apparato neuronale "plastico" nel senso che è in grado di autodimensionare strutture e funzioni in relazione a tutte le varie esperienze stimolanti che riceve dall'ambiente faunistico di iniziazione durante il "periodo sensibile" (che cessa intorno ai due o tre anni di età).
In questa fase transitoria (determinante per le future qualità del cane), la sinaptogenesi evolve in funzione della quantità e qualità degli stimoli esterni (e quindi adeguandosi ad essi) fino a completare il processo di omeostasi (stabilità. Capacità degli organismi viventi di mantenere un equilibrio interno pur nel variare delle condizioni esterne. n.d.r.) sensoriale ed emozionale dei cuccioli e quindi la loro capacità cognitiva, che consente di metabolizzare gli stimoli esterni elaborando le reazioni adeguate, fissate in comportamenti stabili e non suscettibili di modificazioni (nel bene e nel male, si pensi alla paura del colpo di fucile) per effetto di un fenomeno definito "stabilizzazione sinoptica selettiva".
E' attraverso questi processi complessi e ancora poco conosciuti che a mio avviso il cucciolo elabora la tecnica venatoria, dalla quale dipenderà la "resa venatoria" del cane da lavoro, che richiede senso del selvatico, facilità di incontro, ampiezza di cerca, sfruttamento del vento e del terreno, sensibilità nel determinare la distanza alla quale fermare il selvatico.
Enrico Fenoaltea