Giorgio Lugaresi, imprenditore di successo, cacciatore appassionato, beccacciaio, narratore con stile. Con piacere pubblichiamo questo suo autorevole parere su:
Cos'è la caccia
Spiegare che cos’è la passione per la caccia a chi non ce l’ha, è come cercare di spiegare i colori a un cieco. Molte volte mi è stato chiesto di descrivere, di cercare di far capire che cosa provavo andando a caccia, quale fosse la molla che può spingere una persona ad alzarsi presto la mattina per poi battere le campagne in cerca di prede.
A questa domanda, non sono mai riuscito a dare una risposta compiuta perché per parlarne ci vuole tempo, ma soprattutto ce ne vuole per raccontare la passione che mi è nata nel cuore di ragazzo e che va vista senza superficialità. La caccia, per tanti, è un modo di vivere e d’intendere la propria vita.
Alcuni poi vivono confrontandosi ogni giorno con questa passione nel loro ambiente di lavoro, con gli amici al bar o in armeria, il “confessionale” come mi viene spontaneo chiamarla da quando ci sono i reality show. Altri, invece, durante la settimana non ne parlano affatto e anzi quasi la dimenticano, ma poi nel weekend: doppietta, tascapane e via per i monti.
Questa passione mi ha rincorso per tutta la vita. Fin da bambino, piccolissimo, ero affascinato dal setter che mio padre portava a caccia. Un maschio, Jack. Nel cortile di casa, a volte lo scrutavo per lungo tempo mentre, in ferma sui passeri che venivano a mangiargli il resto della zuppa, tentava con scatti inutili di afferrarli. Loro erano molto scaltri e rapidi, e riuscivano a fuggire sempre in tempo.
Un giorno mi misi a seminare un po’ di pane attorno alla ciotola, fino a portarlo a ridosso di Jack che fingeva di sonnecchiare. Mi misi su una sedia sotto il fico che era il mio rifugio sull’isola dei pirati. I passeri dopo un po’ arrivarono saltellando. Dapprima guardinghi, si dimostrarono poi ingordi di tutto quel ben di Dio, abbassarono l’attenzione dal setter, che invece, carico come una molla, ne prese uno tra le piume che svolazzavano in aria. Avevo assistito a una perfetta azione di caccia, anzi ne ero stato il fautore e Jack, che aveva nel suo DNA il senso del rapporto col padrone “capobranco”, me lo portò in mano a fior di labbra.
Così sono diventato cacciatore? Oh no, molto prima. Il 24 giugno a Cesena è San Giovanni, la festa del patrono, e mio padre ogni anno mi ci accompagnava per passare un pomeriggio assieme e per farmi uno dei tre regali annuali: uno per l’Epifania, uno per il mio compleanno e uno appunto per San Giovanni. Lì la mia fantasia s’inaridiva in un unico desiderio: un fuciletto a tappi.
Fu così per tre o quattro anni, ma poi arrivò la carabina ad aria compressa, sempre a tappi di gomma, naturalmente. Per arrivare alla Diana del 16 con i pallini di piombo, dovetti prendere la licenza di terza media. Quel diploma nel 1968 aveva un significato importante in casa mia perché in quegli anni l’analfabetismo era ancora ben presente in Italia; sulla RAI per esempio c’era una trasmissione seguitissima che si intitolava Non è mai troppo tardi dove insegnavano a scrivere a chi non aveva mai preso una matita in mano. Del resto alle elementari iniziavi con il pennino, l’inchiostro, il calamaio e un’infinità di aste.
La mia prima vera arma da caccia è stata una fionda di legno fatta con gli elastici ricavati dalla camera d’aria di una ruota di bicicletta e un pezzetto di cuoio come sede del sasso-proiettile.
Con quell’arnese ero diventato precisissimo, come molti miei compagni della banda. Abitavo nella prima periferia di Cesena, oggi è zona centralissima, dove la campagna era rigogliosa e un fiumiciattolo, la Cesuola, era la nostra riserva di caccia. Cacciavamo lucertole soprattutto, ma anche topi nel fiume, passeri e pipistrelli.
Con questi ultimi ero un vero specialista, perché avevo inventato un modo particolare per caricare la fionda; usavo sassolini facilmente reperibili ai bordi di una strada appena asfaltata, in modo da avere l’effetto rosata, e calcolando il giusto anticipo riuscivo sempre a fregarne qualcuno.
Le lucertole le cacciavamo anche tirando vecchie scarpe dei nostri genitori, ma poi l’etica c’impose di usare solo le fionde e le cerbottane. Con quest’ultime i risultati erano deludenti, ma le battaglie tra noi erano fantastiche. Tutti quanti eravamo specialisti nel fabbricarle e nel fare i proiettili di carta con una rapidità incredibile; quando invece si andava a caccia ci infilavamo i “piruletti” di carta fra i capelli per essere sempre pronti a replicare ai colpi con rapidità. Che divertimento!
In estate col tempo buono, si andava a caccia o si giocava a pallone. La mattina andavamo a caccia, il pomeriggio disputavamo interminabili partite. Che sudate e che gambe scorticate! Come se non bastasse il dolore per quelle sbucciature, mia madre mi “dava il resto”, come si dice da noi, perché ero troppo sudato e malridotto.
La sera poi, le rare volte che riuscivo a vedere mio padre prima di crollare a letto, gli raccontavo della caccia. Lui, cacciatore, mi capiva e mi prendeva sulle sue gambe sul divano e io esageravo nella quantità delle prede e delle loro dimensioni e lui rideva e ogni volta mi diceva: “Domenica vieni a caccia con me”. E con quella promessa crollavo come morto.
Ero stato molte altre volte a caccia di passeri con mio padre e avevo fatto sempre il “cane da riporto” con soddisfazione, soprattutto quando i passeri feriti cercavano di sfuggirmi tra l’erba o la terra lavorata dei campi.
La sera prima lo aiutavo a preparare le cartucce nella cartucciera di cuoio che emanava un odore caratteristico che, ancora oggi, quando preparo la mia, evoca in me quei dolci ricordi. Avevo circa quattordici anni, quell’età buffa in cui un ragazzo non è ancora né carne né pesce. La barba è solo una peluria che non ne vuol sapere di crescere, alcuni tuoi amici sono già raddoppiati e hanno una voce diversa dalla tua e le tue amiche non ti considerano… che strano periodo!
In quell’estate ero cresciuto di quindici centimetri e mia madre era stata costretta ad allungarmi i pantaloni ogni settimana e quindi non ero più l’ultimo della fila a scuola nell’ora di educazione fisica.
Mio padre scarica l’automatico dei cinque colpi, ne ricarica uno e mi dice: “Tira tu”. Per qualche minuto i passeri erano spariti dal cielo e io con il fucile in mano ero emozionato, ma non temevo né il colpo né il rinculo. Non volevo sbagliare: solo questo contava. M’interessava solo colpirlo con quell’unico colpo. Venne giù con le ali aperte, frullando un po’ come un aquilone senza vento.
Volevo andarlo a raccogliere, ma il babbo fu più veloce di me e me lo riportò con gli occhi che gli brillavano dalla gioia. Mi fece sparare ad altri passeri. Alcuni li presi, altri no, ma fu bellissimo. Era un passereto, uno dei luoghi in cui i passerotti vanno a dormire. I cacciatori all’attesa serale erano altri cinque o sei, più due in uniforme che si erano materializzati alle nostre spalle.
Mio padre mi prese il fucile dalle mani, ma loro gli dissero che quello era il modo giusto per insegnare ai ragazzi come maneggiare un’arma, con un colpo alla volta e con lui alle spalle, pronto a coprire un mio eventuale errore. La passione per la caccia mi conquistò per la vita, e così anche il rispetto per le due guardie di quei tempi, anni in cui, non sempre a dire il vero, il buon senso aveva il sopravvento sulla rigidità delle regole.
Ho cacciato molto coi miei cani soprattutto in Italia, ma tanto anche all’estero, in Paesi misteriosi, e potrei raccontare di avventure e di emozioni uniche. Anche per questo motivo ho deciso di pubblicare queste pagine, questo “mio brogliaccio”.
Se penso a ciò che mi ha fatto vedere e provare la passione per la caccia e dovessi rispondere con una risposta secca a chi mi chiedesse di dire qual è la cosa che più mi ha dato, non avrei dubbi su cosa rispondere: gli amici, ho conosciuto tanti amici.
Giorgio Lugaresi