Ogni evoluzione del cane da ferma è strettamente legata alle modifiche dell'ambiente, della qualità della vita, del modo di cacciare ed è normale che i cani attuali siano diversi da quelli di ieri, perché ambiente e selvaggina sono cambiati.
Nel dopoguerra la caccia con il cane da ferma era praticata da pochi, l'agricoltura era basata sui cicli agrari naturali, sul lavoro animale, sui concimi naturali.
Poche (e dissestate) le strade, pochissimi i veicoli, (vaste aree erano irraggiungibili e fungevano da oasi) la selvaggina naturale, incrementata durante la pausa bellica, era abbastanza diffusa.
Allora lo scopo principale della maggior parte dei cacciatori era il carniere di selvaggina naturale (assai pregiato), per il quale era indispensabile il fucile, mentre il cane, era considerato solo uno strumento per moltiplicare gli incontri.
I cani di quei tempi avevano una modesta dotazione genetica, poco veloci e poco precoci, avevano un basso tasso di addestrabilità, una vita attiva breve; erano soggetti a invalidanti "spedature" evitabili solo con un allenamento continuo (la caccia era aperta per 9 mesi all'anno), ma sapevano cacciare in ogni ambiente qualunque selvatico.
Erano onesti "tuttofare" generici, capaci di imparare a trattare selvatici sconosciuti (anche da adulti), che compensavano la modestia della loro qualità con l'eclettismo e con una buona tecnica venatoria, sviluppata dal doversi misurare con la selvaggina naturale.
La differenza di stile e di tecnica venatoria tra le razze inglesi e quelle continentali era assai più marcata di quanto non lo sia oggi.
Dopo il 1950, in pochi decenni la rapida diffusione del benessere ha aumentato il numero dei cacciatori; lo sviluppo della motorizzazione e delle strade hanno sottoposto ad una intensa pressione venatoria ogni lembo di terreno; l'antropizzazione della campagna, l'agricoltura moderna intensiva meccanizzata, (con la monocoltura e la chimica), hanno reso l'ambiente ostile alla selvaggina stanziale naturale che si è irrimediabilmente estinta (con l'eccezione della lepre).
Per necessità la selvaggina naturale è stata sostituita dagli animali di allevamento, (di nessun pregio per il carniere) e da ciò sono derivate inedite conseguenze a "cascata" su cinofilia e caccia.
Anzitutto la svalutazione del carniere ha rivalutato il lavoro del cane e dalla "caccia" si è passati alla "cinegetica"; l'interesse del cacciatore cinofilo si è trasferito (come è stato detto con efficacia) dalla "resa venatoria" del cane (non più essenziale sugli animali di allevamento) ad un "estetismo cinofilo" poco attento alle vere doti venatorie (senso del selvatico, facilità di incontro ecc, in via di deperimento a seguito della mancanza di selvaggina naturale).
La centralità del lavoro del cane ha avvicinato il mondo della caccia a quello della cinofilia agonistica, ritenuta palestra e accademia delle più alte qualità del cane, e la cultura cinofila di tutti i cacciatori si è progressivamente arricchita.
Gli standard agonistici sono divenuti il parametro di valutazione del cane, e ciò ha obbligato gli allevatori ad indirizzare la pressione selettiva nella valorizzazione di ciò che il mercato richiedeva: ne è conseguito un miglioramento generale delle doti genetiche di tutte le razze (morfologia, precocità, capacità di apprendimento, tasso di addestrabilità, olfatto, velocità e ampiezza della cerca, ecc.) con inevitabili "effetti collaterali".
E' emersa una iperestesia del sistema nervoso dei cuccioli che ha come effetto positivo una straordinaria precocità nel cercare e nel fermare fin dalle prime uscite, ma collateralmente essa si accompagna ad un "blocco" della capacità di apprendimento: dopo le prime esperienze, il "sapere venatorio" resta congelato ad un elementare PRIMO LIVELLO.
In sostanza ciò che il cane ha appreso nel periodo sensibile viene ad essere anche il suo limite, perché da adulto risulterà refrattario ad ogni successiva esperienza diversa da quella fatta.
Questa che oramai pare una modificazione genetica, ha portato una quasi generale "specializzazione" dei cuccioli sull'unico tipo di caccia sperimentato.
Inoltre sempre a causa della pressione selettiva il sistema nervoso dei cuccioli ha ora un'omeostasi fragile che recepisce in modo traumatico stimoli (per noi banali) determinando lo spesso (nel bene e nel male), un condizionamento definitivo e non più modificabile, cioè un "imprinting" che ottunde la possibilità di cambiare atteggiamento.
La reazione a eventi imprevisti (il rumore dello sparo, una punizione troppo severa, l'eccitazione indotta dall'inseguimento di volatili sfrullati o da una lepre) può determinare nel sistema nervoso del cucciolo una specie di corto circuito, neuronale, cioè un shock incontrollabile con conseguenze deleterie, da cui può derivare, un inguaribile timore dello sparo, il rifiuto della ferma o del consenso, una cronica indisciplina, la tendenza ad "andare a rimorchio" di altri cani, varie fobie e timidezze.
Da tutto questo emerge che il momento più delicato per la formazione del cucciolone è il cosiddetto "periodo sensibile" (che va dagli 8 ai 24 mesi), nel quale è attiva la capacità di apprendimento, (ora è assai più vivace ma di breve durata), soggetta nella maturità ad un deperimento che inibisce al cane adulto ogni sviluppo della tecnica venatoria acquisita al termine dell'iniziazione, (che resta proporzionale alla qualità e alla scaltrezza degli animali incontrati).
La tecnica venatoria, indispensabile al cane da caccia, non si trasmette per via ereditaria (come le doti genetiche) e non può essere insegnata: il cane, a differenza dei cuccioli di altri predatori carnivori (il lupo suo progenitore), non è in grado di apprendere per imitazione, dall'esempio della madre o dei membri esperti del branco, la tecnica venatoria (l'emulazione presente in tutti i cuccioli serve solo a stabilire la scala gerarchica), ma la deve acquisire individualmente e autonomamente attraverso un'unica scuola (la pratica venatoria) e dagli unici insegnanti a ciò deputati (i selvatici).
Oramai gli etologi hanno accertato che in natura esiste una relazione elastica di coevoluzione compatibile tra i valori adattativi preposti all'autoconservazione dei predatori e delle prede (rispettivi sistemi offensivi e difensivi) e ciò obbliga i predatori ad adeguare la qualità dell'attacco alle peculiarità difensive della preda.
Il che vuol dire che la qualità del cane dipende dalla qualità della selvaggina sulla quale è maturato.
La selvaggina naturale, rara, diffidente, smaliziata pronta all'involo, irregolarmente distribuita su aree estese, sagace nel ricorrere alle tecniche difensive ed elusive, obbliga il cane a sviluppare quelle autentiche qualità venatorie che vengono sintetizzate dalle formule "senso del selvatico", "facilità di incontro" e "ferma solida".
Invece gli animali di allevamento, confidenti, incapaci di difesa, restii all'involo possono essere "trattati" anche con una tecnica venatoria primitiva da un cane fornito di buone doti genetiche.
Ho maturato l'opinione che la competenza acquisita dal cane nel periodo di iniziazione si consolida con la maturità in una definitiva "specializzazione" e questa "novità" del nostro tempo è indirettamente legata alla sparizione della selvaggina naturale: il vecchio cane "tuttofare" ed eclettico è scomparso.
Ciò spiega perché un cane di valore eccelso su animali di allevamento, sarà mediocre su selvaggina naturale e inutile su beccacce e beccaccini; e viceversa un formidabile starnista sarà inutile sulle beccacce e mediocre sugli animali allevati.
Dai postulati discendono alcuni corollari che è bene tenere in conto.
Anzitutto l'orientamento e le condizioni dell'iniziazione del cucciolone determinano una "specializzzazione" che condiziona tutta la futura vita dell'adulto.
Poi chi vuole acquistare un cane adulto, deve provarlo sulla selvaggina sulla quale intende adoperarlo.
Infine il cacciatore che addestra da solo il proprio cane da caccia deve sapere che da adulto il cane sarà specializzato sulla selvaggina conosciuta durante l'iniziazione.
In conclusione sotto molti aspetti è sempre attuale la vecchia massima "ogni cacciatore ha il cane che si merita" perché dal padrone dipende la programmazione e la direzione del processo formativo del cane.