Sono una particella cosmica. Sento di vivere in meravigliosa armonia, in equilibrio, e sono infinitamente piccola e indistruttibile, senza inizio né fine. La mia essenza è unica. Vago per milioni di anni all'interno di un corpo celeste. Sono spirito e materia. Sono spazio e tempo. Immutabile nel mio divenire. Nel mio mondo non esiste il male e cammino oltre l'amore, la libertà e la bellezza. Prima di arrivare sulla terra facevo parte di una stella. Un cuore incandescente che proveniva dai primordi della Creazione, quando tutto era buio o fuoco compresso. Lì ho dormito per ere ed ere finché mi sono staccata con un frammento di stelle, ho attraversato spazi immensi, corpi celesti inimmaginabili, galassie lontane anni luce, oceani infiniti, nubi di polvere stellare, per eoni interi, superando deserti infiniti di spazio. Infine, mi sono approssimata a quell'angolo di universo in cui si stava formando il sistema solare, in mezzo a forze potentissime, cataclismi cosmici, inconcepibili illuminazioni interstellari. Quando sono arrivata qui questo evento prodigioso era ancora ben lontano dall'avverarsi. Occorrevano ancora molte trasformazioni infinitesimali, l'opera del caso e il soffio dello Spirito.
I cambiamenti erano incessanti e drammatici. La terra non aveva atmosfera, era formata da un oceano di roccia fusa bombardato da corpi celesti che arrivavano senza ostacoli sollevando enormi ondate di magma. Io ho fatto parte di quell'inferno. Poi cominciò a raffreddarsi come infiniti altri corpi, in obbedienza a leggi cosmiche che iniziarono a dominare nell'universo. Era conclusa la fase del parossismo, l'inconcepibile caos dei primi tempi, e ancora una volta io, piccola particella cosmica, ero lì. Nuvole gassose produssero una prima atmosfera, che cominciò a costituire un primo, debole, stato di protezione dalla superficie del pianeta. Improvvisamente prese a piovere. Piovve per secoli, per millenni. Un diluvio continuo, violentissimo, che accompagnava la nascita di un elemento raro e preziosissimo: l'acqua. E io c'ero, io ero lì, sotto quel diluvio infinito che riempì ogni cavità fredda, che raffreddò distese immense, deserti caldi, alzando nuvole spessissime che ricadevano con grandi gocce calde. Mi ritrovai sopra una grande massa magmatica che stava per esplodere. Quella grandissima piramide di fuoco guadagnava il cielo ancora corrusco, con i suoi colori abbaglianti, dominando, nella notte astrale, la valle sottostante. E la particella cosmica che proveniva dalle origini si trovò dentro alla montagna che eoni dopo sarebbe diventata famosa per la sua bellezza, il Monte Cervino. La piramide di Dio.
Dopo milioni di anni parte della montagna venne sommersa dall'acqua; io ero lì, alla sua base, e così mi parve di vedere la formazione dei primi esseri viventi in un paesaggio marino incantevole e terribile come tutto ciò che è ancestrale. Col tempo le acque si ritirarono in oceani limpidi e azzurri. Il Cervino, che già si ergeva in cima alla valle, era molto più alto di come lo vediamo oggi. Milioni di anni di venti e piogge non l'avevano ancora eroso. Era intatto, smagliante, potente. Ai suoi piedi un'enorme distesa di ghiaccio bianco-azzurro, spesso centinaia di metri, aveva invaso la vallata ed emanava bagliori adamantini che riflettevano il cielo. Il grande ghiacciaio percorreva la valle fino a incontrare i ghiacciai delle altre vallate e con questi confliggeva sprigionando gemiti e scricchiolii. Lassù, in alto, una fantastica palla di fuoco, circondata da pianeti e altri corpi celesti, sprigionava la sua potenza con l'energia della sua luce e dei suoi colori luminescenti. Ci sarebbero state molte altre glaciazioni e molti altri disgeli, ma durante una di queste vicende si produsse, in un modo che ancora oggi è misterioso, la vita.
Il ghiaccio si sciolse lentamente. Si formarono molti ruscelli, torrenti, e laghi piccoli e grandi. Le acque scappavano da tutte le parti inondando la terra, scaldata dal sole e accarezzata da venti più dolci di quelli violentissimi di millenni prima. Venti “nutrienti”, portatori delle molecole della vita e dei primi esseri monocellulari che si erano prodotti negli oceani.
La conca di quello che gli uomini chiameranno Breuil si copriva di verde. I dinosauri occuparono ogni nicchia ecologica e poi morirono, forse per un cambiamento climatico, forse per un asteroide, un supervulcano, chissà... Ma la vita non terminò: ai dinosauri si sostituirono come dominatori insetti, rettili, e mammiferi. Le acque alimentavano ruscelli e fontane che formavano cascate d'argento, animando le rocce e i dirupi in una vita sempre più rigogliosa. La terra divenne come la conosciamo noi oggi. Forse il colore del cielo cambiò. Forse l'uomo non esisteva ancora o forse sì, non sappiamo in quale forma.
Arbusti, rododendri, stelle alpine, genziane, tantissimi fiori colorati si univano, più in basso, alle prime piante che l'evoluzione aveva prodotto: gli abeti, i larici, i cirmoli e tante altre varietà. Al centro della Valle si ergeva sempre la piramide di Dio a osservare un paesaggio meraviglioso. Una fata aveva una grande grotta accanto a creature fiabesche che cavalcavano cervi, camosci, stambecchi e altri animali che non esistono più, come le tigri dai denti a sciabola che un tempo vivevano certamente da queste parti, assieme agli orsi, ai lupi e persino ai mammut. Nel cielo volavano aquile, corvi imperiali, draghi parlanti. In questo mondo arcaico regnavano la pace, l'amore, la serenità. Era l'Eden, il paradiso terrestre. Col tempo, all'alba di una nuova epoca, mi mescolai a un filo d'erba, crebbi fra le rocce, assorbendo gli umori della terra, le sostanze nutrienti, i minerali, e producendo gli zuccheri che il sole mi donava. Rimasi chissà quanto, forse millenni, accanto a bellissimi fiori color argento. In questi luoghi vivevano animali preistorici dotati di enormi corna arcuate che saltavano giocosi fra le rocce con agilità. Un giorno, uno di loro si chinò e tranciò con i denti il filo d'erba. Non provai né dolore né sofferenza. Fu in questo passaggio, assimilandomi all'organismo dell'animale che che si cibò di me, che divenni, finalmente, carne.
Probabilmente vissi per alcuni millenni nel grembo pulsante della vita animale. L'esemplare di cui facevo parte, uno stambecco primitivo, non aveva coscienza della propria esistenza. Conduceva una vita splendida e libera. Viveva fra rocce e superbi dirupi, brucava fiori e licheni, ai piedi di montagne inviolate, tra l'abbacinante biancore di ghiacciai perenni. Per lui la lotta per la sopravvivenza non si fermava mai. S'acquietava all'ombra di una roccia, al fresco di un ghiacciaio, s'abbeverava a una pozza e all'improvviso poteva essere attaccato da belve feroci e aquile urlanti. D'inverno la neve, il freddo e il gelo mettevano a dura prova la sua resistenza fisica. Combattimenti ancestrali fra maschi adulti garantivano, attraverso la vittoria del più forte, la continuità della specie, mentre le femmine e i piccoli pascolavano indisturbati. Finchè un giorno, dopo l'ultimo, estremo, durissimo combattimento, lo stambecco affaticato ed esausto vide, verso l'imbrunire, sull'ultimo colle per la prima volta un essere, ritto sulle due gambe, con nelle mani una lancia rudimentale di legno dalla punta acuminata. Lo stambecco, incuriosito, lo guardò, poi si sdraiò addormentandosi alla luce delle stelle. Come sempre. Quella volta però andò diversamente: un'arma, una lancia mortale ne trafisse il cuore e il sangue caldo bagnò la terra fredda. Successe in una notte stellata o in un'alba appena fatta, quando il cielo era ancora viola. Il più terribile predatore della terra s'inchinò e bevve quel sangue. Era l'essere umano o un ominide progenitore. Alzò la lancia al cielo in segno di sfida e di dominio e un urlo lacerante infranse il silenzio della notte. L'uomo era comparso. Si cibò dell'animale. Così per la seconda volta entrai a far parte della sostanza di un altro essere vivente.
A differenza del primo, questo aveva coscienza della propria esistenza e della capacità di potersi evolvere. Era in grado di imparare, di migliorare partendo dai propri errori. Attraverso questo essere primitivo ero entrato in simbiosi con la vita umana. Dopo aver attraversato torrenti e ruscelli entrò in un grande bosco e timidamente si fermò davanti a un’enorme caverna. L’odore del selvatico richiamò l’attenzione dei cavernicoli che uscirono dalla grotta con le braccia alzate in segno di vittoria. La ricerca del cibo attraverso la caccia, la pesca, la raccolta di erbe e radici, rappresentava l’attività dominante della tribù. Durante l’estate nella vallata c’era un clima mite, nel periodo invernale invece il freddo era intenso e la neve cadeva abbondante. Gli ominidi stavano raccolti attorno al fuoco, bruciando, giorno dopo giorno, le cataste di legna accumulate nel periodo estivo. Il freddo e la fame mietevano vittime. Anche se ricoperti da un folto pelo su tutto il corpo, si difendevano dal freddo avvolgendosi nella pelliccia degli animali cacciati. Le pelli più ambite, soprattutto dalle femmine e dai cuccioli, erano quelle morbide e delicate di ermellini, donnole, volpi, linci. I membri delle tribù comunicavano fra di loro con gesti, versi, ma soprattutto con il pensiero. La telepatia era molto sviluppata e veniva utilizzata per comunicare con il mondo animale e vegetale e con le divinità.
La valle era frequentata dalla tigre delle nevi, molto temuta per la sua mole, forza e aggressività; i suoi occhi fiammanti e il suo mantello argentato le conferivano un aspetto affascinante e quando correva con balzi veloci come il vento le grida degli uccelli annunciavano il suo arrivo. Per difendersi da questa, i capi delle tribù avevano stipulato un’alleanza con il capobranco dei lupi e una volta all’anno tutti si trovavano per dividersi i territori di caccia. Quando era necessario cacciavano insieme e non di rado un lupo si affezionava a un cacciatore diventando il suo
fedele compagno.
In primavera orsi giganteschi, dopo il letargo invernale, uscivano dalle tane cibandosi di erbe e radici ma anche di pesci, entrando così in competizione con gli ominidi nella cattura di trote e variopinti salmerini che popolavano i ruscelli scintillanti e i laghetti verdi e azzurri disseminati nella vallata. Le tribù primitive frequentavano i territori compresi fra il Cervino e il Monte Rosa dai quali si diramavano valli meravigliose discendenti verso la Valle d’Aosta, il Piemonte e la Svizzera. Le montagne erano molto più grandi di quelle di adesso e i ghiacciai penetravano all’interno delle foreste. I boschi erano pieni di vita e accanto agli animali selvatici vivevano, forse, entità fiabesche. Questo perlomeno ci dicono le antiche saghe e le leggende di tutto il mondo. Draghi con le bocche fiammeggianti che, di tanto in tanto, comparivano in alto nel cielo, compiendo razzie nella valle. E poi gnomi ed elfi che si aggiravano indisturbati frequentando il fitto dei boschi e il mondo sotterraneo alla scoperta di caverne ricoperte di gemme, cristalli, pietre preziose scintillanti fra ruscelli e fontane d’acque diamantine. Anche fate e creature malvagie e stregonesche contribuivano ad animare questo mondo fiabesco e misterioso. La flora della vallata era ricca e varia in base al periodo dell’anno. I bucaneve segnavano l’arrivo della primavera, seguiti dalle viole, dalle genziane e poi dai rododendri, mentre più in alto fra le rocce le stelle alpine salutavano incuriosite il passaggio di branchi di camosci. Il cacciatore di stambecchi nei periodi di tranquillità saliva la montagna per raccogliere erbe selvatiche, bacche, mirtilli e miele saporitissimo prodotto dalle api che si nutrivano del polline di fiori dai mille colori. Scrutava il sole e i pianeti che si intersecavano nel cielo, e quando giungeva ai piedi di un gigantesco larice millenario considerato sacro, si inginocchiava a pregare e parlare con la grande pianta che lo ascoltava in silenzio, inchinandosi leggermente come per salutarlo. Abbracciava infine la pianta e così le due anime, quella umana e quella vegetale, si fondevano diventando parte dell’anima cosmica.
Questo mondo primitivo dominato da un’armonia ancestrale durò per centinaia di migliaia di anni, forse per milioni. Mi pare di sentirne, nel profondo del mio essere, il silenzio inverosimile, l’aria pulita come appena uscita dalla sua creazione; e i suoni che oggi sembrerebbero così poco familiari, così strani, così arcani.
Durò fino a quando un tremito terribile fece vibrare la terra scuotendo le montagne che sembravano sgretolarsi scaricando massi e detriti lungo le vallate. Fragore e boati uditi milioni di anni prima quando erano scomparsi i dinosauri, ormai affondati nella memoria di ogni essere vivente, scatenarono il terrore.
Tutti fuggivano all’impazzata, cercando rifugio nei luoghi che sembravano più sicuri. Una pioggia di meteoriti e asteroidi stava cadendo sulla terra. Terremoti ed esplosioni si diffondevano ovunque. Il clima si trasformò improvvisamente. Temporali, burrasche, venti impetuosi, tempeste di neve flagellavano il pianeta.
Enormi meteoriti piombarono nei mari e negli oceani provocando onde gigantesche che inondarono parte della terra. Il cacciatore di stambecchi aveva radunato a fatica tutta la tribù in una foresta dove erano cresciuti alberi grandissimi con radici solide e ben ancorate nella profondità del terreno. Il bosco tempestato da venti e bufere seppe reggere la violenza inaudita che si era scatenata dal cielo e dalla montagna. Il cataclisma durò alcuni anni e le acque dei mari, spinte da onde impazzite, raggiunsero i piedi della montagna percorrendo la vallata e travolgendo tutto quanto si trovava nel loro passaggio. Quell’inconcepibile tempesta ancestrale non aveva avuto la forza della catastrofe che aveva provocato l’estinzione dei giganti antichi, ma ci era andata molto vicina.
L’acqua si fermò proprio davanti alla foresta e i massi distaccatisi dalla montagna non riuscirono a penetrarla. Molti animali si salvarono, nascosti in ripari sicuri e nelle cavità della terra. Le creste delle montagne, in seguito al terremoto, si erano abbassate e tutta la catena del Cervino e del Monte Rosa aveva assunto un aspetto molto simile a quello attuale. Il cacciatore di stambecchi salì sulle vette più alte di queste montagne per conoscere la nuova conformazione della roccia e del terreno. Ma ormai il clima era cambiato. Completamente. L’inizio di una nuova glaciazione era alle porte. Espandendosi lungo le valli, i ghiacciai spingevano le tribù e gli altri esseri viventi, i sopravvissuti alla catastrofe, verso la pianura. Lassù il cacciatore di stambecchi, solo, ormai vecchio, ricoperto di peli bianchi e con una folta barba, all’interno della sua caverna, buttava nel fuoco gli ultimi rami secchi. Aveva deciso che sarebbe rimasto lì, avvolto dal ghiaccio e dalla neve a riposare nella sua terra, nella sua montagna. Credo esistesse davvero una sorta di armonia fra gli esseri allora. Il capobranco dei lupi gli si avvicinò per convincerlo a scendere a valle, qualche guaito, uno sguardo, un raspare delle zampe. Ma quello, ormai stanco e affaticato, preferì rimanere e così morì di fame e di freddo.
Il lupo pianse a lungo. Uscì dalla caverna e il suo ululato di dolore lacerò l’aria di quella notte fredda e stellata. Arrivarono gli altri lupi e tutti gli altri esseri viventi delle valli. Gli stambecchi schierati in prima fila si erano inchinati per rendere omaggio all’eterno nemico. Giunsero anche la tigre delle nevi e i draghi, gli esseri fatati tutti… Il cacciatore di stambecchi non c’era più. Con lui scomparve il mondo incantato degli gnomi, degli elfi, delle fate, delle streghe e dei draghi con cui sapeva comunicare.
La caduta degli asteroidi aveva provocato l’estinzione di massa di molte creature. Soltanto poche tribù primitive, insieme ad alcune specie animali, sopravvissero popolando le pianure e le colline ai piedi dei grandi ghiacciai. Anche parte del mondo vegetale era sopravvissuto e anch’io, piccola particella cosmica, continuavo la mia vita nei discendenti del cacciatore di stambecchi.
Tratto dal libro
IL CACCIATORE DI LIBERTA' - Mondadori, 2014
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