In Italia, stando ai numeri, da almeno un trentennio compriamo in massa i libri di Wilbur Smith: il più grande scrittore di romanzi d'avventura vivente è infatti anche l'autore più letto nel nostro Paese (24 milioni di copie vendute).
Vorrà pur dire qualcosa se i personaggi dei romanzi di Smith, accomunati da uno spirito selvaggio e avventuroso che trova nel raffronto diretto con la natura la sua espressione più alta, sono molto spesso cacciatori. Per capirne il motivo basta riferirsi alla biografia dell'autore. Nato e cresciuto in Africa, dove tuttora risiede nella sua faraonica villa da bestseller incallito, Wilbur, che oggi ha superato gli 80 anni, sa cosa significa vivere pienamente. La sua vita è sempre stata un'avventura, incredibilmente costellata di pericoli, amori (è al quarto matrimonio) ed esplorazioni in ogni angolo del mondo. La caccia torna come un punto fermo in ogni narrazione, forse perché è l'avventura per eccellenza... “Quello della caccia – spiegava nel 2010 Smith al Secolo XIX -, è un istinto primordiale dell’uomo e fa parte delle leggi di natura”. Che dire, un testimonial davvero niente male per il mondo venatorio. E un valido motivo di orgoglio da potersi spendere sul piano socio–culturale...
Wilbur Smith inizia molto presto a cacciare, per necessità. Da bambino doveva badare al ranch del padre e sparare a vista ai predatori che attaccavano il bestiame. Ha abbattuto il suo primo leone a 12 anni, come racconta in una recente intervista sull'inserto Venerdì di Repubblica in occasione dell'uscita italiana del suo nuovo romanzo, "Il Dio del deserto". Nell'intervista ricorda quando, per proteggere le bestie dagli alligatori, sparava nel fango non appena vedeva affiorare le scaglie dei rettili e quando appunto ha dovuto usare il fucile a 12 anni appena, visto che i genitori non c'erano. “Tre leoni – dice alla giornalista – hanno ucciso 12 dei nostri capi. Li ho affrontati mentre li stavano sbranando. Uno mi ha caricato: ho ammazzato prima lui poi gli altri”. La caccia non è stata solo questione di sopravvivenza, è poi diventata una passione e una filosofia di vita. “Ho ucciso sei elefanti in vita mia - continua - e sono convinto che legalizzare la caccia sia un modo per preservare la specie. Chi fa un safari punta ai maschi anziani e inutili. I cacciatori di frodo sparano alle bestie giovani, per venderne la carne”.
Pare abbia sgranato gli occhi – così riferisce il reportage - quando la giornalista di Repubblica ha tentato un timido “e non sparare per niente?”, evidentemente una domanda ritenuta niente affatto degna di risposta per Wilbur, che non è certo noto per i suoi modi diplomatici. Il racconto della vita di Wilbur sul Venerdì continua con l'avventura più eccitante. Mr Smith non ha dubbi “quella con il bufalo. Dicono che è difficile ucciderlo – racconta -. Non è vero: è difficile convincerlo che è morto. Perchè se non lo fai secco al primo colpo, torna a prenderti. Alle spalle. E sono guai. Ne ho stesi più di cinquanta in vita mia”.
A parte la foga della passione, che in Smith brucia come avesse ancora vent'anni, c'è un ragionamento etico sotto, che sottointende un profondo rispetto per il mondo e le sue risorse. “Sono ovviamente contrario – chiariva sempre nel 2010 al Secolo - alla caccia indiscriminata, alla minaccia delle specie a rischio, ma oggi ci sono controlli precisi, si possono abbattere solo capi in eccesso, la caccia rientra nel programma di protezione della natura”.
“La verità è che il protezionismo non paga – continuava Smith in quell'intervista - E quello ovattato di marca europea non mi convince. È la maschera di un nuovo colonialismo. Sono invece a favore di una caccia controllata, se questo significa sviluppo sostenibile per le popolazioni locali. Come in Botswana, dove per cacciare un leone bisogna sborsare 150 mila dollari che vanno alle tribù indigene”. “A mandare in estinzione gli animali – puntualizza Smith - è piuttosto la deforestazione, l’urbanizzazione selvaggia, che provoca cambiamenti ambientali irreversibili e distrugge l’habitat di molte specie".
Chissà che finalmente questi concetti possano essere fatti propri, grazie alla lettura dei suoi romanzi, anche da quella larga parte di popolazione italiana che si dice contraria alla caccia. Ce lo auguriamo.
Cinzia Funcis