
"Ma il Parco Nazionale d’Abruzzo, ha veramente i poteri che crede di avere? Un Ente Autonomo, emanazione dei poteri dello Stato, avrà ben dei limiti oltre i quali non sia per legge autorizzato ad agire, come ad esempio avviene per gli Enti Comunali che per logica (e per legge!) non possono agire sui Comuni limitrofi.
Recentemente è corsa voce che le guardie del Parco d’Abruzzo stiano richiedendo ai pastori e allevatori, anche della zona esterna ai confini del Parco Nazionale, delle autocertificazioni di regolarità e dei loro insediamenti (stalle, pollai, stazzi, ecc.) e delle zone pascolive di loro proprietà, di terzi, o dei Comuni in cui risiedono. Ma, l’Ente Parco, ha veramente il potere/diritto di avanzare tali richieste?
L’unica legge valida per le zone esterne del Parco è quella istituiva del 1923 e altre successive organizzative dello stesso, ma nessuna di queste leggi conferisce poteri oltre i confini del Parco; ad esempio, sulla cosiddetta e recentemente resa famosa dalle polemiche, mai istituita area contigua; ovvero, la cosiddetta e mai esistita “Zona di Protezione Esterna”, sulla quale in realtà il Parco ha solo il potere di controllo venatorio per il rispetto di “particolari divieti di caccia per alcune specie di selvaggina” dallo stesso emanati su “terreni e territori limitrofi”; terreni e territori i cui confini, peraltro, non sono mai stati formalmente stabiliti con atti legislativi, ma solo con provvedimenti interni dell’Ente Parco, e spesso modificati a piacimento.
Anche sull’autocertificazione che in questi giorni viene richiesto di sottoscrivere, ai pastori e allevatori della zona del Parco e aree esterne, vi sono dei dubbi interpretativi. L’art. 46 del DPR 445/200 su cui si basa non sembra comprendere le questioni che si chiede ai pastori e allevatori di autocertificare. Oltretutto, con una tale pignoleria che, in Abruzzo, Molise e Lazio, dove esiste una pratica ancestrale pascoliva e di allevamento brado, se applicata secondo i crismi di detta autocertificazione, nessun pastore o allevatore risulterebbe in regola. La paura è che, che risultando essi fuori regola, qualsiasi danno che dovessero subire dalla fauna selvatica, l’ente Parco sarebbe motivato a non indennizzarlo!
Bè, non è che questa pratica sia del tutto democratica, visto che la fauna è di proprietà indisponibile dello Stato, e lo Stato non può cavillare per non pagare i danni che essa arreca, anche qualora i pastori e allevatori non fossero del tutto in regola nella loro ancestrale attività (esistono diritti da consuetudinari usi, e credo che tra questi esistano quelli relativi almeno al pascolo brado). Ad esempio, come può un pastore regolarizzare il suo diritto di pascolo brado su terreni che magari appartengono a dei privati che da cento o più anni vivono in America e sono perlopiù irreperibili? O il diritto antichissimo di “uso civico” su suoli pubblici e anche privati?
Comunque, forse è anche giusto che il Parco prima di pagare i danni voglia assicurarsi che chi li ha subiti non truffi o si sia messo fuori regola, ma è anche certo che così facendo si fomenta di fatto il comportamento auto-tutelante dei propri interessi da parte di chi ha subito il danno; autotutela non certo legittima, ma difficile poi da controllare!
Un Ente Parco istituito per difendere specie animali anche rari, come il lupo e l’Orso marsicano nel caso del Parco d’Abruzzo, se veramente tiene a salvaguardare queste specie, prima di eccedere in repressione dovrebbe avere un’apertura collaborativa con i pastori e gli allevatori, e non già conflittuale e punitiva; cercare di comprendere il fatto che da questi animali essi subiscono danni. Ma anche che degli animali domestici lupi ed orsi spesso hanno bisogno per millenaria consuetudine. Non già cavillare per non rifondere i loro danni! Vi sono diritti ancestrali di uso del territorio e dell’ambiente (es. l’uso civico) che andrebbero quanto meno accettati in una logica di convivenza e collaborazione. E gli stessi rimborsi per danni subiti, andrebbero piuttosto visti quali contributi ad attività rurali in lento declino, che anche in un Parco Nazionale contribuiscono non poco al mantenimento della biodiversità vegetazionale, ed anche animale.
O vogliamo anche noi, come avviene autoritariamente in Africa ed in India, dove si spostano tribù intere con millenari diritti per fare posto a tigri e leoni, spostare i popoli locali (anch’essi con diritti ancestrali) per fare posto all’Orso e al Lupo, e magari dare poi gli stessi territori in pasto al turismo?
Non sarebbe più ragionevole una rapporto collaborativo, anziché una rigida applicazione di regole, specie quando poi, come nel caso della cosiddetta fantasiosa zona di protezione esterna, esistono anche dubbi sul fatto che forse anche l’Ente Parco a volte valica i limiti stabiliti dalla legge o, peggio, considera legali confini mai legislativamente chiariti (ad es. dopo 100 anni non sono pochi i tratti di confini del Parco Nazionale tuttora in discussione!)?
Forse è giunto il momento che l’autorità pubblica e forense stabilisca o chiarisca una volta per tutto i suddetti limiti, ivi compreso il diritto dei guardiaparco di agire al di fuori dei suddetti confini e di spostarsi ben oltre, e finanche armati. Per non dire delle loro competenze (come quella di far firmare autocertificazioni a liberi cittadini anche esternamente al Parco). Recentemente qualcosa del genere è stato fatto per le guardie giurate volontarie (Cass. Sez. III n. 6146 del 17 febbraio 2021 (PU 7 ott 2020) - Polizia Giudiziaria. Guardie zoofile ENPA), per le quali la Corte di Cassazione ha chiarito alcuni aspetti controversi.
A chi l’onere di avanzare una tale richiesta? In fondo è una questione di correttezza, in quanto i cittadini devono sapere fin dove giungono i poteri di una pubblica autorità.
Franco Zunino
Segretario Generale Associazione Italiana Wilderness