Ricordi di cacciatore


venerdì 20 aprile 2018
    
La passione venatoria è nata in me ancora da bambino tramandata dal nonno paterno del quale sono rimasti ben vaghi ricordi, poiché avevo solo pochi anni quando morì, ma è con mio padre che alimentai la vera passione per la caccia, apprendendone le forme ed apprezzandone i rituali di questa fantastica millenaria cultura rurale che è la CACCIA!!

A quei tempi il calendario prevedeva l’apertura della stagione venatoria al quindici d’agosto. Con i primi giorni del mese iniziavamo a caricare le cartucce per la caccia: lavoro eseguito scrupolosamente a mano calibrando sia le polveri che il piombo, con bossoli di cartone riciclati, riutilizzati più volte finché non si potevano più orlare dall’usura (a mio modesto parere molto più ecologiche delle moderne in plastica che ritrovi ancora dopo anni sparse nei terreni!).


Il primo appuntamento di caccia era con le quaglie: piccolo e ambito galliforme presente nel nostro paese dai primi d’aprile fino a fine agosto, se il clima rimaneva mite, ma con le prime piogge insistenti cominciava a migrare nei paesi più caldi. In quella stagione già dalle prime luci dell’alba sentivamo il susseguirsi dei canti, il richiamo dei maschi provenire da ogni angolo, dai prati di trifoglio e dalle stoppie di frumento raccolto: il frumento, lavorato alla vecchia maniera, veniva falciato dalla mietitrice trainata da cavalli, legato in piccoli fasci ed accatastati in covoni nei campi, per poi essere trasportati in cascina dove un giorno sarebbe arrivata la trebbiatrice che lo separava dalla paglia. Ricordo che erano giorni di duro lavoro per i contadini, in piena estate, fra tutto quel frastuono e polvere che s’alzava in cielo, ma c’era comunque tanto entusiasmo e grand’allegria in cascina, con quel movimento di gente operosa e gioiosa che lavorava cantando sull’aia.

Oggi raramente si incontrano le “vere” quaglie: quei pochi esemplari che riescono a nidificare in appezzamenti incolti, devono sopravvivere ai pesticidi e veleni immessi nell’ambiente, ai mezzi meccanici sempre più evoluti, e con l’apertura della stagione venatoria ad oltre la metà di settembre, sono già migrate.

Ricordo che si poteva cacciare di tutto, esercitando liberamente ogni forma di caccia, senza ambiti territoriali ne confini di province o regioni. Con l’apertura generale si poteva cacciare anche la selvaggina stanziale come lepri e fagiani senza distinzione. Chi non possedeva un cane da caccia, improvvisava un capanno fatto di frasche e fogliame raccolti sul posto, con qualche merlo e dei passeri da richiamo in gabbia, attendeva il posarsi di qualche volatile, per poter fare un modesto carniere, a volte restando anche per tutta la giornata, infatti, per la maggior parte dei cacciatori lombardi era molto atteso il passo delle allodole che avveniva dalla metà d’ottobre alla fine di novembre.


Avevo circa sette anni e nel periodo migliore del passo non serviva andare in Calabria o in Sicilia per fare un buon carniere, bastava che il mio papà dicesse: “Domani si va a caccia!”.


La sera stessa, per non perdere tempo il mattino successivo, mi mettevo all’opera per preparare tutto l’occorrente. Per tutta la notte non riuscivo a dormire temendo che, se non mi svegliavo, mio padre mi lasciasse a casa. Si partiva alle prime ore del mattino per occupare i terreni migliori del passo migratorio, che mio papà conosceva perfettamente e frequentava da anni. Aggrappato al sellino della nostra moto Gilera portavo la bisaccia piena di cartucce, ricaricate durante le sere della settimana, ed una doppietta Berretta a cani esterni, che ancora oggi conservo gelosamente. Arrivati sul luogo di caccia ancora col buio ed infreddolito dal viaggio, il mio entusiasmo riemergeva subito quando allestivo il palo con il nostro splendido falchetto gheppio da richiamo: lo prendevo dalla sua cestina e lo legavo allo sgabello sulla sommità del palo. A quei tempi ne era consentito l’uso come per la civetta, l’allocco ed il barbagianni, sostituiti oggi da zimbelli meccanici o stampi di plastica. Con le prime luci dell’alba, appariva un bianco tappeto di gelida brina che depositata durante la notte imbiancava ogni cosa finché, dissipata la fitta nebbia, i primi raggi del sole la sciogliessero. Appena la giornata diveniva più limpida e serena, arrivavano i primi gruppetti di pispole ed allodole, apparendo ad intervalli più o meno lunghi per tutta la mattinata. Le così dette “San Martino”, varietà d’allodole più piccole, chiudevano la stagione del gran passo migratorio.


La forma di caccia che più mi entusiasmava era lo “sguass”: ricordo ancora tutte le notti passate nel capanno, seminterrato in un laghetto artificiale. Stavo appiccicato alle “spiaroule”, piccole finestrelle a pelo d’acqua, ascoltando il gracchiare delle anatre utilizzate da richiamo; con lo sguardo verso la luna piena che rifletteva il suo bagliore, illuminando tutto lo specchio d’acqua come fosse giorno. Attendevo pazientemente l’arrivo di qualche anatra selvatica fino al punto di addormentarmi. Col sorgere dell’alba, ero riposato per assistere al momento migliore: l’arrivo dei primi selvatici. Alzavole, marzaiole,  beccaccini ed a volte intere colonie di pivieri d’ogni specie che si accompagnavano alle pavoncelle; una quantità d’anatidi che oggi ritrovo solo sui libri o nei miei ricordi.


Con la scomparsa del mio papà, ho maturato diverse esperienze frequentando amici cacciatori, passando, alla fine degli anni sessanta, da migratorista a stanzialista, praticando la caccia esclusivamente con cani da ferma. Ad oggi ho addestrato una decina di cani prediligendo le razze pointer e setter con i quali, chi più chi meno bravo, ho sempre ottenuto per la forma di caccia scelta notevoli soddisfazioni.


Oggi posso affermare con certezza di essere un vero ed orgoglioso cacciatore, avendo praticato ogni stagione venatoria in tutti i suoi aspetti, quelli che la natura vissuta mi ha donato. Quello che ho sempre inteso come senso ultimo della caccia trova significato solo nel trascorrere e condividere emozioni ed appassionate avventure con gli amici, senza pensare al carniere: se c'è ben venga! Questo è per me, oggi più che mai, il significato dell’essere cacciatori. Cacciatori di occasioni vissute o mancate, sempre con la speranza che la prossima stagione venatoria sia migliore, vivendola con gran passione, nonostante le numerose regole e restrizioni. In questo modo, da oltre 50 anni d’attività venatoria, sogno e spero sempre, fin che Dio me lo concede, in nuove avventure di caccia, da ricordare e poter raccontare.

 

Federico Arici

Tratto da RACCONTI DI CACCIA, PASSIONE E RICORDI Raccolta di racconti in ordine di iscrizione al 3° concorso letterario “Caccia, Passione e Ricordi” A cura di: Federcaccia Toscana – Sezione Provinciale di Firenze [email protected] www.federcacciatoscana.it


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